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La storia di Borgo Grappa

LA MACCHIA DELLA VOZZA E LA PORCARECCIA PRESSO IL RIO MARTINO
 
Il progetto di bonifica, redatto dall'Ing. G. B. Pancini nel 1929, prevedeva una lunga strada di bonifica, chiamata Strada Litoranea, che, con una serie di rettifili, con­giungeva la località di Passo Genovese, presso Foce Verde, con il promontorio del Circeo, passando a ridosso dei pantani e dei laghi litoranei. Il tracciato di questa strada intersecava, in località “Segheria”, lo stradello costruito da Casa Caetani per accedere dal Quadrato alla Villa di Fogliano, ol­trepassava poi il Rio Martino nei pressi del “Ca­sal dei Pini e proseguiva verso il Circeo, attraversando la Selva di Terracina.
Nel progetto Pancini erano previste anche, quali strade di bonifica, la costruzione di un unico rettifilo dal Quadrato a Fogliano e il prolungamento della strada Migliara 45, costruita ai tempi di Pio VI soltanto dalla Via Appia (località Bocca di Fiume) al Fiume Sisto (località Passo S. Donato). Il prolungamento verso il mare della Migliara 45 veniva a confluire con la progettata Strada Litoranea poco a nord del ponte sul Rio Martino e quindi presso l'antico “Casale dei Pini”.
In questo incrocio stradale il progetto Pancini collocò un Villaggio operaio, che prese il nome del casale anzidetto.
Questo villaggio aveva lo scopo di creare la base di appoggio ai lavori di bonifica che dovevano essere eseguiti nel territorio circostante. e che riguardavano principalmente l'apertura del tronco inferiore del Collettore delle Acque Medie (Rio Martino) con relativo sbocco a mare, nonché la sistemazione dei pantani litoranei e dei laghi fra Capo Portiere e il Caterattino.
Per accedere al Casale dei Pini, prima che fosse costruita la strada di bonifica, si doveva affrontare un viaggio molto disagevole e chi non desiderava fare una lunga e faticosa camminata a piedi servirsi di un cavallo a sella.
Partendo dal Quadrato si doveva andare fino al cancello della villa di Fogliano e qui voltare a sinistra e prendere la carraia, che nel primo tratto rasentava il parco della villa, poi continuava verso sud serpeggiando per evitare sulla sinistra la fitta boscaglia della Vozza e sulla destra i terreni acqui­trinosi e spesso infidi adiacenti al lago di Foglia­no. Si giungeva così al Casale dei Pini dopo poco più di tre chilometri e dopo avere effettuato l’apertura e la successiva chiusura di non si sa quanti cancelli apposti alle staccionate che via via sbarravano il passo. La prima accoglienza era fatta da un gruppo di quattro o cinque grossi cani da pastore, dal pelo biancosporco ed ispido, che dopo un furioso abbaiamento, quasi facessero la gara a chi latrasse più forte, si acchetavano e scomparivano al fischio del guardiano.
Oltrepassato il vecchio casale, dopo poco più di un centinaio di metri si scendeva al guado attra­verso il Rio Martino, l'antichissimo canale pre‑ro­manoche allora era del tutto inefficiente, perché intasato dagli interramenti e dalla vegetazione ce­spugliosa e arborea che per molti secoli si era ac­cavallata, sovrapponendosi successivamente agli strati di piante morte per vecchiaia. Il Rio Martino pertanto allora soltanto una lunga piscina ove le acque ristagnavano per tutto l'anno.
Il passaggio nel guado di Casal dei Pini rappre­sentava una vera difficoltà, specialmente nei perio­di piovosi, quando il guado scompariva in un mare di fanghiglia; solamente facendosi guidare dai but­teri del luogo era possibile effettuare la traversata senza rimanere più o meno impantanati nel fango.
 
La località prescelta per il futuro Villaggio era ricoperta da un bosco ceduo che faceva parte della “Macchia della Vozza”, per cui si dovette, per prima cosa, procedere allo sgombero del terreno dalle piante e dalle relative ceppaie che lo ricoprivano ed anche dai tronchi di alberi di alto fusto abbat­tutidurante la guerra 1915/1918 e non più utilizzati: finito il conflitto e normalizzatosi il mercato del legname, era venuta a mancare la convenienza economica di questa utilizzazione e di conseguenza i tronchi erano stati in gran numero abbandonati sulluogo e lasciati imputridire.
In prossimità del futuro villaggio vi era il “Casale dei Pini” un vecchio edificio in muratura di tufo fatto costruire molto tempo prima da Casa Caetani per l'alloggio dei guardiani del bestiame, specialmente bovino e suino, che in piena libertà era lasciato pascolare nelle riserve della zona.
Il nome di “Casale dei Pini” derivava appunto da quat­tro piante di questa essenza che, come dice­vano allora i bene informati, erano state messe a dimora di fronte al fabbricato per ordine della Duchessa Caetani, la quale volle in tal modo imporre il nuovo nome al casale che fino ad allora si era chiamato Porcareccia.
La Duchessa Caetani veniva ricordata sul posto co­me una donna veramente straordinaria, alla quale si dovette la coraggiosa iniziativa di costruire, molti anni prima della guerra 1915/1918, la Villa di Fogliano e di circon­darla con un bellissimo parco, ricco di grandi alberi e di piante da fiore di ogni specie. Nonostante l'ambiente circostante fosse selvaggio e malarico, la Duchessa risiedeva spesso nella Villa di Fogliano e manteneva affabili contatti con i pescatori, i but­teri, i bufalari e i pastori dipendenti da Casa Caetani.
 
Per poter iniziare la costruzione del villaggio, era necessario giungere alla località prescelta aprendo il tracciato della Strada Litoranea nel rettifilo, di oltre tre chilometri, che dalla località Segheria di Fogliano portava in prossimità del Rio Martino. Questo tracciato risultò molto labo­rioso, in quanto doveva essere effettuato per tutta la sua lunghezza attraverso la Macchia della Vozza, la quale, ricoperta come era dal bosco ceduo, sem­brava al primo esame pianeggiante, mentre in real­tà era molto accidentata per la presenza di avvalla­menti marcati, che formavano le piscine e di alcuni valloni molto in­cisi, entro i quali defluivano le acque che dalla Du­na Quaternaria scendevano verso il Lago di Fo­gliano.
Per eseguire il tracciato della strada si dovet­te procedere per tentativi e far uso di fumate, che si ottenevano bruciando della legna sul punto di ar­rivo presso la Segheria di Fogliano.
Cercando di vedere queste fumate dal punto di pas­saggio della Strada Litoranea sul Rio Martino, fu possibile indirizzare - su un cammino approssimati­vamente rettilineo - gli operai disboscatori, che aprirono così un varco nel fitto della macchia, il cosiddetto “sfilo”. In questo breve varco si poté poi, superando molte difficoltà, procedere all'esatto tracciato dell'asse stradale e successivamente al rilievo altimetrico oc­corrente per fissare il definitivo progetto esecutivo della strada.
Analoghe operazioni, ma molto meno difficol­tose, furono fatte per il tracciato della strada dal Quadrato a Fogliano, che, per buon tratto, si so­vrapponeva al preesistente stradello aperto da Casa Caetani.
Alle operazioni di tracciamento delle strade se­guì senza indugio la costruzione dei rialzati in terra, sui quali si doveva al più presto posare il binario della ferrovia di servizio.
Occorre ricordare che tanto le massicciate e le opere d'arte stradali, quanto il cantiere per la costruzione del futuro villaggio, non poterono essere forniti dei necessari materiali se non attraverso la ferrovia dì servizio.
Il tecnico Giovanni Bortolotti ricorda alcuni curiosi particolari che accompagnarono questi lavori:
“Partendo dal Quadrato in direzione di Fogliano, si incontravano gruppi di capanne in località Casale della Selva e Segheria. Gli abitanti di queste capanne, oriundi di Alatri, si dedicavano principal­mente all'allevamento dei maiali, d'una razza pic­cola dalla pelle nera e dalle setole ispide, che de­notavano chiaramente una stretta parentela col cin­ghiale. Queste bestie, lasciate del tutto li­bere nella macchia, dovevano da sole procacciarsi il cibo ed erano continuamente intente a grufolare nella ricerca di radici, di vermi, di topi, di bulbi di piante erbacee e in modo particolare di bulbi di asfodelo dei quali erano ghiottissime.
L’opera dei maiali disturbò particolarmente gli operai terraioli quando cominciarono i lavori del­le strade con l'apertura di trincee e di cunette e con la costruzione di rilevati. Sulla terra rimossa i maiali accorrevano a frotte numerose ed aggres­sive, non appena gli operai la sera lasciavano il lavoro, quasi che il lavoro stesso fosse stato ese­guito per facilitare alle bestie la ricerca dei bulbi; in breve, grufolando furiosamente e conficcando il muso nel terreno ove col loro olfatto avevano indi­viduato la presenza di qualcosa d'appetibile, mettevano tutto a soqquadro fino a raggiungere l’ambito boccone, con grande disappunto degli operai         spondini che dovevano ripristinare più volte le scarpate già fatte…
Tutta la zona attorno a Casale dei Pini era scar­samente abitata, anche nei mesi durante i quali il pericolo della malaria era meno da temere; i pochi abitanti erano dediti, per la quasi totalità, all'allevamento del bestiame, che pascolava nella boscaglia.
Dopo aver liberato dalle piante e dalle radici zona sulla quale doveva sorgere il villaggio, si dovette anche effettuare la colmatura di alcune piscine; la più grande di esse, ove l'acqua ristagnava in permanenza, rimaneva quasi al centro del costruendo villaggio. La terra che occorse per detto lavoro venne ricavata dall'apertura d'una vicina trincea sulla nuova strada “Prolungamento Mi­gliara 45”, che prese così l'avvio, per la sua co­struzione, da Casale dei Pini verso il Sisto”[1].
 
I lavori di costruzione dei fabbricati vennero iniziati nella primavera del 1929 e furono eseguiti direttamente dal Consorzio di Bonifica, interessando la mano d'opera con piccoli cottimi fiduciari.
Il nucleo centrale del villaggio fu costi­tuito dai seguenti fabbricati:
Casa del Capo Azienda con annesso fabbricato rustico;
casa del medico con annesso ambulatorio e fabbricato rustico;
casa per i guardiani idraulici con annesso fabbricato rustico;
dispensa;
Ufficio postale e salone per il dopolavoro con annessi alloggi;
forno con allog­gio e annesso rustico;
caserma dei Carabinieri con annesso rustico.
Tutti questi edifici furono di tipo analogo a quello dei fabbricati costruiti con uguale destinazione a Passo Genovese, ossia Borgo Sabotino.
Nel nucleo centrale furono comprese anche la Chiesa, la scuola e la cabina elettrica con soprastante serbatoio per l’acqua potabile.
Merita uno speciale accenno la Chiesa, che fu costruita su progetto dell'Architetto Tirelli ed i cui prospetti di tufo, che alternano i toni chiari a quelli scuri, risultarono di un bell'effetto estetico.
Per il fabbricato scolastico, comprendente due aule e due appartamenti per alloggio insegnanti, venne adottato un progetto più moderno di quelli eseguiti negli altri villaggi.
Le linee architettoniche della torretta del serbatoio idrico, che al piano inferiore ospitava la cabina elettrica di trasformazione, ricalcavano in miniatura quel­le della torre corsara di Fogliano, situata sulla spiaggia a sinistra della foce de Rio Martino, che venne distrutta durante la guerra nella primavera del 1944.
Anche i prospetti della torretta/serbatoio erano in tufo bicolore ed uno di essi portava un orologio funzionante.

La torretta e l'edificio della scuola fu­rono costruiti dal lato opposto a quello dei restanti fabbricati rispetto alla strada “Prolungamento Mi­gliara 45”,pur avendo un fronte lungo la StradaLitoranea.
In periferia vennero costruiti quattro centri co­lonici, ognuno dei quali comprendeva la casa co­lonica propriamente detta, la stalla con annesso avancorpo a tettoia aperta e un rustico per ma­gazzino, forno, pollaio e porcile.
 
Appena i fabbricati furono ultimati e dotati di acqua per gli usi domestici e di luce elettrica, ven­nero immediatamente adibiti all'uso al quale era­no stati destinati: entrarono così subito in funzione gli alloggi operai nei fabbricati colonici, la Sta­zione Sanitaria Antimalarica, la scuola, la dispensa condotta da Giovanni Celani, mentre si iniziarono i servizi reli­giosi domenicali e le rappresentazioni cinematogra­fiche nel salone del dopolavoro.
I corsi scolastici regolari cominciarono nell'au­tunno 1930; la prima maestra fu la signorina Teresa Baldini, proveniente da Forlì. I primi scolari furono i figli dei butteri e dei “macchiaroli” che ancora vivevano nella zona. Sul finire del 1932 si aggiunsero ad essi i bambini delle famiglie coloniche che, provenienti dal Veneto, occuparono i poderi dell’Opera Nazionale per i Combattenti.
Attorno al centro colonico più vicino al vil­laggio, lungo la Strada Litoranea in direzione di Fogliano, alcuni ettari di terreno vennero adibiti a Campo Sperimentale agrario, la stalla ven­ne riempita di bestiame bovino selezionato ed at­tiguo ad essa venne costruito un moderno deposito per il foraggio. L'organizzazione e l'avviamento del Campo Sperimen­tale Agrario fu, da parte del Consorzio di Bonifica, affidata all'assistente Signor Carlo Scaravelli, che veniva da Reggio Emilia, il quale operava secondo le direttive del consulente agrario del Consorzio, il dott. Eugenio Azimonti.
I lavori di costruzione del villaggio e delle strade della zona vennero diretti sul posto dal Geom. Ottorino Perazzotti, che si avvalse della collaborazione dell'Assistente edile Ampelio Freddi e del contabile Guido De Angelis.
 
Sotto il punto di vista amministrativo, il villag­gio costituì il Lotto 32 delle opere occorrenti per la Bonifica di Piscinara; il progetto esecutivo fu redatto contemporaneamente al progetto generale della bonifica dell’Ing. G. B. Pancini in data 29 Aprile 1929, approvato con D.M. 26 Settembre 1929 N. 5854/7091.
 
Il cantiere lavori di Casal dei Pini funzionò fino a tutto l'anno 1931 per la costruzione della Strada Litoranea verso la Selva di Terracina, della strada Prolungamento della Migliara 45 verso Bocca di Fiu­me e del tratto terminale del Rio Martino, quale Collettore delle Acque Medie. Ai lavori eseguiti nel triennio 1929‑1931 dal cantiere di Casal dei Pini, collaborarono anche gli assistenti Natale Ar­dizzoni, Anselmo Bulgarelli, Dal Monte, Carlo Gottardi, Aldo Nerini, nonché l’Impresa Ing. Mario Cavani da Bologna, che costruì il ponte e le due grandi briglie in cemento armato sul Collettore delle Acque Medie.
 
Nel gennaio 1932 il vil1aggio operaio venne preso in consegna dal 3° ­Reparto Lavori della Bonifica di Piscinara, che vi insediò la Direzione delle opere di sistemazione dei Pantani litoranei da Torre Astura al Caterattino in prossimità di Sabaudia.
 
Un elemento veramente caratteristico dell'ambiente nel quale si costruì il nuovo villaggio di Casal dei Pini, era costituito dal corso del Rio Martino, che passava nelle immediate vicinanze del villaggio da costruire.
Percorrendo il Rio Martino da Casal dei Pini verso monte, si intravedeva fra le piante l’alveo di questo incavo assumere a mano a mano dimensioni sempre più ampie, finché, in corrispondenza de1la sommità della Duna Quaternaria, l’incavatura mostrava larghezza e profondità addirittura imponenti. Ciò era conseguente alla maggiore quota che avevano i terreni della Duna; l'incisione dell’incavo era stata infatti praticata a quota quasi costante, nel tentativo, riuscito poi vano, di far comunicare le acque che ristagnavano nella grande Palude Pontina, tra la Duna stessa e i Monti Lepini, con il mare, per il percorso più breve. Quest'opera, effettuata in tempi remoti, era tanto considerevole che soltanto un popolo che avesse raggiunto un certo grado di civiltà e di potenza la poteva concepire e attuare.
Qualche anno dopo la costruzione del villaggio di Casal dei Pini, lo scavo effettuato dal Consorzio di Bonifica entro l'alveo del Rio Martino per portarne il fondo a quota tale da poter ricevere le colatizie del Collettore delle Acque Medie e convogliarle al mare, non diede luogo, purtroppo, a ritrovamenti di alcun relitto od oggetto che avrebbe potuto dare qualche indizio riguardo alle origini di questo cavo così singolare.
Dopo tanti secoli di abbandono, il fondo del Rio Martino si presentava molto interrato e in due punti l'apporto di sabbia dei fossi delle campagne laterali che vi si scaricavano era risultato addirittur­a tale da permettere la traversata dell’incavo da a parte all'altra.
Questi due punti di passaggio avevano dei nomi tutt'altro che rallegranti: il primo, fra Casale dei Pini e la sommità della Duna, si chiamava “Passo del Malconsiglio” e il secondo, a metà percorso dello sgrondo verso il fiume Sisto, “Passo del Tradimento”.
Non è improbabile che tali denominazioni abbiano origine da azioni da parte dei briganti, che nei secoli passati infestavano la Selva e che, nella zona attraversata dal Rio Martino allora ricoperta da boschi ad alto fusto, lontana dalle vie di comunicazione, con punti di passaggio obbligati, trovavano un ri­fugio sicuro per riposarsi dopo avere compiuto le loro ribalderie e per meditarne delle nuove.
 
Dal guado del Rio Martino presso Casal dei Pi­ni, procedendo verso sud sul futuro tracciato del­la Strada Litoranea, al bosco ceduo subentrava la macchia bassa, costituita principalmente da piante di mortella, di lentischio e di erica.
In lontananza, in direzione del Circeo che dominava sull'orizzonte, siintravedeva una macchia scura: la Selva di Terracina.
Il terreno diveniva più sabbioso e la carraia, battuta da tempo dal passaggio del bestiame e delle barrozze, era tanto incassata sotto piano di campagna da sembrare addirittura un largo fossato. Il passaggio su questa carraia era più agevole nei periodi di cattivo tempo, e quindi d'invern­o, in quanto il terreno sabbioso più era bagnato e più diveniva compatto, offrendo un appoggio solido agli zoccoli dei cavalli e alle ruote delle vetture.Durante la buona stagione, le auto da campagna che si avventuravano da queste parti sprofondavano spesso nella sabbia sciolta e rovente, costringendo a manovre di spinta faticosissime e snervanti, cosicché in questi casi il lavoro che dava più da fare ai tecnici era quelli di spingere l'automobile.
Dopo circa due chilometri da Rio Martino il rilevato della costruenda Strada Litoranea incontrava sulla destra un casaletto in muratura di tufo del tutto abbandonato, senza serramenti e con il tetto in disordine: era la “Capanna Murata”.
Il pecoraio che svolgeva la sua attività nella zona, aveva preferito, per propria abitazione, costruirsi a lato del fabbricato una capanna di frasche e canne per utilizzare invece il fabbricato anzidetto come ripostiglio di attrezzi e ricovero delle scrofe e dei lattonzoli.
Le capanne che venivano allora costruite in Agro Pontino, secondo i dettami di una esperienza plurimillenaria, erano confortevoli e sicure; all’interno di esse non si sentiva nessuna corrente d'aria e anche durante la cattiva stagione e con le piogge persistenti e violente, non vi si ave­vano infiltrazioni d'acqua; gli spessi graticciati di canne palustri costituivano uno strato coibente, con effetto vantaggioso molto apprezzato sia nei periodi di freddo intenso che in quelli caldi.
 
L'avanzata verso la Selva di Terracina con i lavori della Strada Litoranea, dipendenti dal Cantie­re di Casal dei Pini, proseguì negli anni 1930‑1931.
Superati i profondi valloni del Rio di Nocchia, del Fosso di S. Giuseppe e del Fosso di Capodomo, i rialzati stradali, sui quali correva la ferrovia Dé­cauville di servizio, si congiunsero nell'ottobre del 1931 con gli altri rilevati della stessa Strada Litoranea, quelli la cui costruzione era stata iniziata l'anno precedente da un altro Reparto Lavori par­tendo dal Circeo in direzione nord. Anche i binari della ferrovia di servizio poterono congiungersi con quelli provenienti dal Circeo.
Questa saldatura dei lavori stradali e dei due tronchi corrispondenti della ferrovia di servizio, diede luogo, a partire dal 1932, ad un ampliamento dell'attività lavorativa del Consorzio di Bonifica.[2]

 
 
PRIMI ANNI DI VITA (1932‑1935)
 
Borgo Grappa si chiamava ancora Casal dei Pini quando, all'inizio del 1932, vi presero residenza i primi tecnici facenti parte del gruppo cui era stato affidato il compito di risanare a tempo di primato le paludi litoranee, da Foce Verde al Lago di Paola.
La costruzione del villaggio era stata da poco ultimata e il territorio circostante era ancora una desolata landa dove i lembi di boscaglia e di mac­chia si alternavano ad acquitrini e piscine.
Il dispensiere, il medico, la maestra e qualche famiglia spaurita che già temeva l’assalto della malaria, costituivano i primi e soli elementi della vita civile, ai quali l'ostile ambiente naturale rendeva veramente ardua la vita quotidiana, specie col freddo grigiore e con l'umidità di quelle gior­nate invernali.
Per i tecnici sopraggiunti, che provenivano dalle ridenti zone di Terracina e del Circeo, le prime settimane invernali trascorse a Casal dei Pini non furono certo allegre, ma ad essi non sfuggirono le migliori prospettive che si presentavano per l'av­venire.
L'ampio territorio di paludi, di stagni e di tumoleti stava infatti lentamente uscendo dal suo sonno millenario, poiché la Strada Litoranea assi­curava i collegamenti con le altre zone dell'Agro Pontino ed i lindi fabbricati rossi e grigi del cen­tro operaio davano un senso di conforto e di sicu­rezza che permetteva di guardare con animo fidu­cioso alle difficoltà dell'ambiente da bonificare.
Ben presto il villaggio operaio divenne il cen­tro motore di una febbrile attività che aumentava di giorno in giorno, facendovi affluire decine di tecnici, migliaia di operai e mezzi d’ope­ra di ogni genere.
Per prima cosa, l'edificio destinato ad abitazione del Capo Azienda venne adattato, nel piano ter­reno, ad uffici per la direzione del Reparto Lavori: nel piano superiore ospitò la mensa per i dirigenti e l'alloggio di alcuni capi‑cantiere.
Nelle adiacenze di questo fabbricato, sorsero in confortevoli barac­che, alloggi e mense per uso di elementi specialisti.
La sistemazione così data al personale tecnico, costituito quasi esclusivamente di elementi giovani e scapoli, assomigliava molto agli accantonamenti militari che durante la guerra 1915‑1918 sorgevano un po' dovunque alle spalle delle prime linee in zone prive di popolazione civile e dove tutto procedeva con “arrangiamenti” più e meno volenterosi.
 
La cosa era considerata in tono scherzoso un po' da tutti e così i superiori di Roma, parlando di Casal dei Pini, paragonavano la vita dei tecnici a quella di una congrega di giovani fraticelli laboriosi, che si permettevano qualche motociclistica scappatella notturna a Terracina o a Nettuno e chiamavano gli alloggi e la mensa “il convento”.
Tra l'alloggio dei tecnici e il fabbricato del Campo Sperimentale venne creato un ampio recinto, nel quale vennero sistemati, sempre in baraccamenti, laboratori per falegnami, fabbri, meccanici, idraulici e cementisti, mentre altre baracche furono adibite a ragazzini, ad autorimesse ed a centralini telefonici. Tutti questi apprestamenti vennero dotati di acqua, luce elettrica e difese antianofeliche; le mense furono dotate di apparecchi radiofonici.
 
L’afflusso di un gran numero di operai portò ad affrontare un grave aspetto dal punto di vista sa­nitario e già dai primi mesi della primavera co­minciarono ad essere assai frequenti i casi di malaria, che si fecero sempre più numerosi.
Ecco come il Prof. Giulio Alessandrini, che nel 1932 era Direttore dell’Istituto di Parassitologia medica della Regia Università di Roma e che era incaricato di organizzare i servizi sanitari dell’Istituto Antimalarico Pontino, descrive la situazione nella sua memoria intitolata L’organizzazione Sanitaria della Bonifica Pontina”:
 
“Con l'estendersi dei lavori del Consorzio e con la costruzione delle strade che dovevano attraversare in lungo ed in largo tutto l'Agro Pontino, fu necessario a poco a poco aumentare le stazioni sanitarie e si fondarono gli ambulatori a Casal dei Pini, a Sessano e Passo Genovese ed a Capograssa (1930‑1931), in­stallandoli convenientemente in fabbricati concessi all'Istituto Antimalarico Pontino dal Consorzio della Bonifica di Piscinara che, compreso dell'importanza dell'azione dell'Istituto stesso, generosamente accettò ogni nostra proposta e si assunse l'onere dell'arredamento completo, tanto per quello che riguardava le abitazioni dei medici e del personale ausiliario, quan­to per quello riflettente gli ambulatori.
Ma i lavoratori aumentavano e con essi i doveri della assistenza, ed allora pensammo di aumentare il nu­mero delle infermerie e dei letti per non allontanare gli operai dal posto di lavoro, onde avessero il con­forto dei loro compagni durante le penose giornate di permanenza negli ospedali, e per diminuire anche la spesa non lieve sia del trasporto in luoghi di cura, più o meno lontani, sia quella delle diarie richieste. Il Senatore Prampolini, Presidente del Consorzio del­la Bonifica di Piscinara, accolse le nostre richieste, e nel 1932 siiniziò quella trasformazione ed amplia­mento di posti di ricovero che anche oggi può am­mirarsi. Il Dopolavoro di Casal dei Pini fu trasfor­mato in una infermeria capace di 30 letti, con la sua sala di accettazione, con la stanza di isolamento per ammalati gravi, ottimamente riscaldata, con la­vandini, bagno con acqua calda e fredda, ritirate e cucina, ed anche con una piccola cella mortuaria. Quanta enorme differenza dalla rudimentale assisten­za di pochi anni prima, e quali maggiori comodità per il personale sanitario e quanto maggiore il suo rendimento!”[3]
 
Nonostante gli sforzi dei sanitari dell' Istituto Antimalarico, l'anno 1932 fece registrare, negli operai dipendenti dal Reparto Lavori di Ca­sal dei Pini, ben oltre 4.000 casi accertati di ma­]aria, di cui circa 50 seguiti da morte.
La frequenza dei casi di malaria fece sì che la media permanenza degli operai al lavoro fosse per questo Reparto di appena due mesi, cosicché nel corso del 1932 furono ben 18.000 circa gli uomini che si avvicendarono nei cantieri, mantenendovi una media giornaliera di appena 3.000 unità circa.[4]
La trasformazione del salone del Dopolavoro in infermeria, così ben descritta dal Prof. Alessan­drini, fu la più sostanziale variante apportata ai fabbricati del villaggio dai suoi nuovi dirigenti, i quali, per questo delicato lavoro, operarono sotto la quotidiana guida del giovane e valente medico dell'Istituto Antimalarico, il Dott. Filippo Gulloni, proveniente da Siderno (Reggio Calabria).
 
Intanto il territorio desolato della Macchia della Vozza e del Malconsiglio veniva sconvolto dalle esplosioni dei dicioccatori, che estir­pavano con l'esplosivo gli enormi ceppi di querce che affondavano nel terreno un vero groviglio di grosse e tenacissime radici.
A partire dalla primavera del 1932, mentre gli operai di Piscinara affrontavano le paludi litora­nee, gli operai delle imprese dipendenti dall'Ope­ra Nazionale per i Combattenti provvedevano a liberare il suolo del retroterra dai resti di quella che era stata per secoli la Selva di Cisterna, affin­ché vi si potessero effettuare gli scassi che lo avreb­bero reso coltivabile.
I legnaioli, i carbonai, i di­cioccatori provvedevano con le scuri, le fiamme e gli esplosivi a liberare il suolo e subito subentravano le grandi aratrici a vapore a sconvolgere le zolle: intanto altre cen­tinaia di operai terraioli, massicciatori e muratori provvedevano a costruire a tempo di primato le case e le strade poderali della trasformazione fondiaria.
Il podere N. 1, primo dei 4.000 e più costruiti nell’Agro Pontino, sorse appunto a Borgo Grappa nel 1932 e faceva parte di un appalto di case e di strade, concesso dall'Opera Nazionale per i Com­battenti all'Impresa Fratelli Adriani di Roma, nel quadro del lotto che doveva essere pronto, con le famiglie coloniche già al lavoro, per l’ottobre di quell’anno.
Avvenne così che nell'estate del 1932, mentre il villaggio di Casal dei Pini veniva attrezzandosi, come si è detto, per dare agli uomini di Piscinara una base adeguata, a meno di un chilometro dal centro del villaggio, in direzione di Fogliano, l’Opera Combattenti costruiva i fabbricati per la Direzione dell'Azienda. Agraria Pontina del Grappa, disponendoli attorno al bivio creato dall’innesto della nuova strada interpoderale detta “della zì Marita” sulla Strada Litoranea.
In questi fabbricati prese dimora l’Agronomo Dott. Giuseppe Taticchi da Perugia, che, costituita l'Azienda Agraria, ricevette ed installò nelle case coloniche appena finite le 100 e più famiglie venute dal Veneto a coltivare i nuovi poderi dell’Opera Nazionale Combattenti.
Il Dott. Taticchi fraternizzò con gli uomini di Piscinara e ne condivise, fintanto che noti fu raggiunto dai familiari, la non lauta mensa: rimase poi a Casal dei Pini, che divenne nel 1933 Borgo Grappa, per l'estensione ad esso della denominazione del Centro Agrario viciniore, fino all'aprile del 1934, quando passò a dirigere l'Azienda Agraria appena costituita a Sabaudia.
 
Il compito assegnato ai bonificatori dell' Agro Pontino era molto impegnativo: il Governo fascista aveva fissato un programma tassativo di mete da raggiungere entro quattro anni (Littoria, Sabaudia, Pontinia ed i relativi appoderamenti) pur lasciando una certa elasticità nell’organizza­zione tecnica occorrente per arrivare allo scopo.
Il V Reparto Lavori dovette perciò, dal 1932 al 1935, distribuire, lungo la zona delle paludi litora­nee che dovevano essere rapidamente risanate, nu­merosi centri di lavoro periferici che si andavano di volta in volta spostando a seconda delle necessità del momento. Questi cantieri dovettero essere provveduti ognuno di alloggiamenti per gli operai.
 
Al villaggio di Casal dei Pini fecero capo, in poco più di tre anni. i cantieri denominati Foce Sisto, Selva (Capodomo), Caterattino, Cocuzza, Sacramento, Caprolace, Lavorazione, Bufalara, Mo­naci, Fogliano, Foce del Duca, Passo Genovese, Valmontorio, Astura.
Estesi campi di baracche di alloggio, completi di ogni servizio, furono impiantati alla Cocuzza, presso l'Idrovoro Caterat­tino, al Bivio Sacramento, al Pantano Vitacchione, presso l'Idrovoro Lavorazione, alla Bufalara, alla Capanna Murata, presso la Cantoniera Fossella, al­la Segheria di Fogliano, presso l’idrovoro di capo Portiere, presso i Casali della Società Forestale di Colle Montanari, Coppola, Cerreto Alto e Vergini, alla Riserva Casalina, al Fogalone presso Borgo Sabotino, presso l'Idrovoro di Valmontorio e al ponte dell'Astura presso la Torre omonima, con complesso di oltre 7.000 posti letto.
La direzione dei cantieri di lavoro e la respon­sabilità del buon impiego di 7.000 uomini, dei re­lativi mezzi d'opera e di qualche impresa ap­paltatrice, vennero affidate ad ingegneri e geome­tri, che diedero in genere ottima prova per l'attaccamento al lavoro e per il superamento delle dif­ficoltà ambientali spesso notevolissime.
La durata del servizio di questi tecnici fu naturalmente condizionata dalla resistenza fisica e psichica dei singoli e vi fu pertanto un avvicenda­mento abbastanza frequente.
 
Ritornando ora al nucleo centrale del borgo, ritengo opportuno accennare ad alcuni aspetti della vita di coloro che vi si erano insediati in maniera presso­ché permanente.
Per qualche tempo ai bordi del villaggio risuonò il fragore di un grosso “escavatore Tosi”, che apriva l'alveo del collettore delle Acque Medie sul nuovo tracciato che congiungeva il trincerone di Rio Mar­tino alla foce presso la Torre di Fogliano: era l’escavatore N. 4 ‑ Capo Escavatorista Sig. Niz­zola. Durante questo scavo venivano messi in luce numerosi resti di tombe romane.
Per molto tempo non passò giorno senza che ne­gli Uffici del Reparto Lavori arrivasse qualche curiosità archeologica: lucernette, piccoli capitelli corinzi molto corrosi, anfore di terracotta più o me­no spezzate. Tutti ritrovamenti giudicati di nessun rilievo dagli archeologi, ai quali era noto che modesti insediamenti umani dell'epoca imperiale era­no stati accertati in varie zone marginali del lembo paludoso attorno a Caprolace e allo sbocco del trincerone del Rio Martirio.
 
Venne rinvenuta ben conservata una testa ma­schile scolpita in pietra calcare: essa non fece a tempo ad allinearsi cori i vari teschi umani che rallegravano la “mensola delle antichità”, negli uffici di Casal dei Pini, perché il Sovrintendente Prof. Jacopi venne a prelevarla di persona portandosela via in un sacco, dopo aver dichiarato trattarsi di un frammento di scultura dell'epoca domiziana.
Intanto veniva aperta dal villaggio di Casal dei Pini verso il mare una nuova strada, che toccava il nuovo Canale presso il grande Ponte-Briglia con paratoie: venne ivi costruita una nuova casa cantoniera, ad opera dell'Impresa Domenico Majolati di San Felice Circeo, casa cui venne dato il nome di Cantoniera Fossella. Presto la cantoniera venne circondata da baracche di alloggio, dando vita ad una specie di sobborgo del villaggio.
A seguito dell'apertura della nuova strada, la “Strada del Porto”, il piazzale centrale del villaggio assunse un nuovo aspetto: i suoi margini vennero orlati con marciapiedi e, addossate alle reti metalliche che recingevano le aree dei singoli edifici, vennero intrecciate siepi di roselline a grap­polo, la cui lunga fioritura diede al borgo l'aspetto di un villaggio‑giardino.
 
Il dispensiere approfittò della sistemazione del piazzale per collocare all’aperto dei tavolini e sedie a disposizione dei camionisti e degli operai di passaggio che si fermavano a bere un bicchiere di birra fresca.
Accanto alla dispensa, l'Ufficio postale cominciò a funzionare sempre più intensamente; si chiamava naturalmente “Casal dei Pini (Roma)” e poco dopo fu cambiato in “Borgo Grappa (Littoria)”.
L’Ufficiale postale si portò i familiari e presto funzionò il collegamento telegrafico.
 
Per appagare le velleità sportive dei giovani tecnici di Casal dei Pini, alle spalle del fabbricato del forno venne spianato un rudimentale campo per il calcio, mentre nel recinto del fabbricato degli Uffici venne costruito un altret­tanto rudimentalecampo da tennis.
 
La bella chiesetta non si animò soltanto per le frettolose messe domenicali celebrate da un sacer­dote portato in automobile e riportato subito via a messa finita, essa vide anche fiorire festosi matri­moni, il primo dei quali fu celebrato dal vescovo di Velletri.
 
Arrivarono anche i Carabinieri e un piccolo comitato locale offrì alla nuova Stazione la ban­diera nazionale, che fu benedetta nella chiesetta del villaggio. Il Comandante venne da Velletri e pronunciò un patriottico discorso: era il giovane Capitano Alessandro D'Alessandro.
L'arrivo dei Carabinieri a Casal dei Pini veniva ritenuto opportuno dato che nel villaggio e nelle immediate adiacenze affluivano a migliaia operai di ogni provenienza, tra i quali potevano ben tro­varsi elementi poco desiderabili. L'attività dei Ca­rabinieri risultò lodevolissima dal punto di vista preventivo.
Man mano che si rendeva necessario fare affluire ­le famiglie del personale tecnico, le possibilità ricettive del villaggio dovettero essere ampliate con vari apprestamenti perché potessero far fronte alle nuove necessità: i fabbricati di servizio, i cosiddetti “rustici” annessi ad ogni fabbricato principale, furono gradualmente trasformati in altrettan­ti appartamenti modesti ma comodi, ed in essi poterono alloggiare famiglie di assistenti tecnici e di elementi specializzati, alle quali venne assegnato anche un piccolo orto.
Nelle adiacenze dell’edificio adibito ai servizi di assistenza sanitaria venne costruito un piccolo fabbrica­to contenente un impianto di bagni a doccia, con acqua calda e fredda, impianto che fu molto apprezzato da tutti gli abitanti del villaggio, specie dalle donne e dai bambini.
 
Già nell'autunno dei 1932 si apprese a Casal dei Pini che il gruppetto di fabbricati costruiti dall’Impresa Adriani per conto dell’Opera Nazionale Combattenti, all'imbocco della strada di Zi' Maria, si sarebbe chiamato Borgo Grappa.
Poco dopo, tra quel gruppo di modesti fabbrica­ti e il casale colonico costruito dal Consorzio di Bon         ifica tre anni prima come Campo Sperimentale Agrario, con tanto di silo a torre, l'Opera Nazio­nal      e per i Combattenti costruì, lungo la Strada Litoranea, un imponente fabbricato ad uso di magazzino e deposito, con che si venne a costituire quasi un          a continuità edilizia tra il centro del villaggio operaio di Casal dei Pini e il centro dell'Azienda Agraria del Grappa. La Strada Litoranea, fiancheg­giata dai pini che vi vennero poco dopo messi a dimora, era destinata a diventare il viale centrale
1R‑ 22 ‑ La chiesa di Borgo del nuovo borgo. Risultò perciò naturale che il nome di Borgo Grappa venisse dato a tutto l’insieme dal Podestà di Littoria, il Conte Valentino Orsolini Cancelli - che era anche Commissario dell’Opera Nazionale per i Combattenti - poco dopo la nascita del nuovo comune.
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Tutti ben sapevano cosa significasse il nome Grappa, con la iniziale maiuscola; essi ricordavano come sul massiccio montuoso, che tra il Brenta e il Piave si erge come ultimo baluardo a difesa del­la pianura padana, l'Italia fosse stata salvata dalla invasione straniera nel novembre ‑ dicembre del 1917 e nel giugno del 1918, e come su quel monte gli Italiani avessero potuto scardinare letteralmen­te il caposaldo della difesa austriaca durante la battaglia di Vittorio Veneto.
Intorno a Cima Grappa, che era il culmine cen­trale del massiccio, vi erano altre cime che lo com­pletavano: esse furono prese e riprese, con eleva­tissimi sacrifici da ambo le parti.
La serie gloriosa dei combattimenti che resero immortale il nome del Monte Grappa, culminò, come già detto, durante la battaglia di Vittorio Veneto: il Generale Diaz, nel Bollettino di guerra del Comando Supremo in data 31 ottobre 1918, scriveva:
“Sul Grappa, sotto l'impeto delle truppe della 4^ Ar­mata, il fronte nemico è crollato. Non è possibile valutare il numero dei prigionieri che scendono a torme dalla montagna. L'artiglieria nemica è colà tutta catturata”. Teatro di scontri decisivi nel corso della Prima Guerra Mondiale e alcuni avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, è conosciuto a molti per il Sacrario Militare del Monte Grappa che contiene resti di militari italiani e austroungarici assieme ad un museo della Grande Guerra. Famoso è anche il Sacello della Madonna Ausiliatrice inaugurato il 4 agosto 1901 dal cardinale Giuseppe Sarto (poi papa Pio X) .
Nella prima guerra mondiale, dopo la sconfitta italiana di Caporetto, la cima diventò uno dei punti centrali della difesa italiana, tanto che gli austriaci tentarono inutilmente e più volte di conquistarlo, per poi avere accesso alla pianura Veneta. Costruendo caverne nella roccia e postazioni fisse di artiglieria, dalla cima gli italiani dominavano e tenevano sotto controllo il fronte sino al Montello.
 


[1] BORTOLOTTI, G., Dalla “porcareccia di Casal dei Pini”, ai silos di Borgo Grappa, in: Economia Pontina, Latina,
[2] Cfr. Dalla “porcareccia di Casal dei Pini”, ai silos di Borgo Grappa (1929-1931). Ricordi di Giovanni Bortolotti, in: Economia Pontina, Latina,
[3] ALESSANDRINI G., L’organizzazione sanitaria della Bonifica Pontina, in: La Bonifica delle Paludi Pontine, Istituto di Studi Romani, Roma, 1934
[4] Cfr. ROMAGNOLI, C., In un Albo d’onore i Caduti per la Bonifica dell’Agro Pontino, in: Economia Pontina, Latina, marzo 1963