X

La malaria

LA MALARIA

 

Claudio Galeazzi e Chiara Barbato

 

 

La malaria è una malattia causata da un protozoo parassita, il Plasmodio, che vive e si riproduce nell'essere umano e nella femmina di un particolare tipo di zanzara, l'Anofele.

Un tempo si credeva fosse dovuta alle cattive esalazioni dell'acqua stagnante che, una volta respirate, provocavano la febbre: da qui il nome mal'aria, cioè aria malefica.

L’uomo contrae la malattia quando viene punto da un’anofele. La zanzara non è di per sè infettante, per essere tale l’anofele deve avere assunto precedentemente il plasmodio pungendo una persona già parassitata. Il suo ruolo è dunque quello di vettore, ossia di trasportatore biologico di parassiti da un individuo all’altro.

Più raramente, la trasmissione fra uomini della malattia può verificarsi mediante trasfusione di sangue o da madre a feto durante la gravidanza.

Esistono quattro diverse specie di plasmodio in grado di parassitare l’uomo: Plasmodium Falciparum, Plasmodium vivax, Plasmodium ovale e Plasmodium malariae, distinguibili in base alla velocità e all’entità dei rispettivi cicli di riproduzione, nonchè alla gravità e alla durata degli effetti sull’organismo.

I sintomi dell’infezione nell’uomo variano a seconda della specie di plasmodio responsabile e risultano condizionati da fattori ambientali e genetici differenti, ma quelli comuni alle quattro specie sono caratterizzati da febbre alta, brividi, sudore, cefalea, dolori muscolari diffusi e simil-influenzali, e dalla comparsa, dopo alcuni giorni, di anemia e ingrossamento della milza e del fegato.

Nelle forme più gravi di malaria, dovute alle specie Plasmodium Falciparum, subentrano poi complicanze renali, epatiche e neurologiche nel momento in cui i parassiti arrivano ad aderire ai capillari degli organi vitali interni, determinando un accumulo di prodotti metabolici del parassita ed ostruendo la normale circolazione del sangue. Quando questo fenomeno interessa il cervello, si è in presenza della cosiddettamalaria cerebrale, che si manifesta con stati di confusione, delirio e coma, portando spesso alla morte.

Meno patogeni risultano Plasmodium vivax, Plasmodium ovale e Plasmodium malariae, seppure anche qui siano nel tempo estremamente comuni, a causa di una tendenza del parassita malarico a mantenersi a lungo all’interno dell’organismo umano, le recidive della malattia. La malaria, quando non provoca direttamente la morte, favorisce in ogni caso l'insorgere di altre patologie, anche letali, per il fatto che causa un forte indebolimento dell'organismo ed è quindi un gravissimo ostacolo allo sviluppo delle popolazioni che ne sono colpite.

 

 

Ciclo biologico del Plasmodio

 

Il microrganismo unicellulare responsabile della malaria, il plasmodio, compie un processo di sviluppo che ha inizio subito dopo la puntura di un soggetto infetto, quando dai globuli rossi di quest’ultimo vengono trasferite e ingerite le forme sessuate. La fecondazione dei gameti del parassita ha luogo nell’intestino dell’insetto e dà origine ad uno zigote vermiforme che comincia a riprodursi rapidamente. I nuovi parassiti, chiamati sporozoiti, si diffondono a migliaia nell’organismo della zanzara e migrano anche verso le ghiandole salivari. Dopo circa due settimane di permanenza all’interno dell’insetto, il plasmodio è pronto per essere iniettato nell’uomo, attraverso la saliva, durante il pasto di sangue.

Nell’uomo i plasmodi trovano un ambiente allo stesso modo favorevole alla riproduzione. Essi raggiungono inizialmente il fegato dove, da ogni sporozoita introdotto, discendono altri nuovi parassiti, detti questa volta merozoiti; subito dopo ha inizio una seconda fase di divisione, detta ciclo eritrocitario di moltiplicazione, nella quale ciascun merozoita rilasciato dalle cellule epatiche invade un globulo rosso.

Il ciclo eritrocitario, se non contrastato da un’efficace reazione immunitaria o farmacologica, si ripresenterà nell’uomo periodicamente, con una regolarità ed una velocità tipica per ogni specie di plasmodio; la liberazione dei parassiti determina le caratteristiche febbri malariche.

Alcuni parassiti, inoltre, dopo essere penetrati nei globuli rossi, si distinguono nelle forme sessuate maschile e femminile che, eventualmente assunte da una zanzara durante un successivo pasto ematico, consentiranno l’avvio di un nuovo ciclo biologico del plasmodio.

 

 

Sintomi della malaria

 

Il tipico attacco malarico si verifica dopo un periodo di incubazione variabile (nel caso di Plasmodium falciparum a distanza di 9-14 giorni dalla puntura infettante) ed ha durata complessiva di 8-12 ore. La gravità di esso dipende dalla specie di plasmodio e dal grado di immunità del soggetto colpito.

L’attacco comincia con uno stadio caratterizzato da sensazione intensa di freddo, con brividi scuotenti ed incontrollabili, e da un forte innalzamento della temperatura corporea che può raggiungere i 40-42° C (fase fredda). Segue un secondo stadio in cui il malato avverte caldo e durante il quale sono in genere presenti dolori di capo e intestinali, nausea e vomito (fase calda). La crisi si conclude con sudorazione abbondante, spossamento, stanchezza ed un improvviso abbassamento della febbre.

L’attacco malarico corrisponde al ciclo riproduttivo del plasmodio nel sangue: è causato dalla liberazione dei parassiti nei globuli rossi, processo che richiede dalle 48 alle 72 ore e si ripeterà quindi con ritmo differente.

Se la febbre ha la tendenza a ricomparire un giorno sì e due giorni no, ovvero ogni quarto giorno dalla prima manifestazione, la malaria prenderà il nome di quartana (causata dal Plasmodium malariae), se a giorni alterni, cioè ogni terzo giorno, si chiamerà terzana; quest’ultima può essere benigna, legata alPlasmodium vivax e al Plasmodium ovale, oppure maligna o perniciosa, dipendente dal Plasmodium falciparum e quasi sempre mortale.

 

 

LA ZANZARA

 

Vita della zanzara dall’uovo all’insetto adulto

 

Le zanzare sono insetti della famiglia Culicidae, sotto la cui denominazione si riconoscono oltre 3.000 specie. La femmina di zanzara, che si nutre di sangue, è detta antropofila se punge di preferenza l’uomo, ozoofila se si rivolge agli animali a sangue caldo in genere. I maschi non pungono mai: la loro alimentazione, infatti, si basa su fluidi zuccherini di origine vegetale.

Il ciclo biologico di una zanzara si completa in un periodo di tempo che va dai 7 ai 21 giorni secondo le fasi seguenti:

Il pasto ematico, l’assunzione di sangue umano o animale è necessaria alla femmina come nutrimento e per la maturazione delle uova; durante la sua vita, in media, la zanzara riesce a portare a compimento 10-15 pasti di sangue.

L’accoppiamento ha luogo in volo. I maschi si aggregano formando uno sciame che attira le femmine della stessa specie. La femmina si accoppia una sola volta nel corso della vita adulta, accumulando e trattenendo gli spermatozoi in un apposito contenitore, la spermateca.

La maturazione delle uova avviene nel corso di circa 48 ore dopo l’accoppiamento, durante uno stato di relativa inattività della zanzara, definito riposo post-prandiale.

L’ovideposizione si verifica generalmente di sera in una raccolta d’acqua idonea allo sviluppo larvale (focolaio): esempi tipici sono le pozzanghere di origine piovana o le pozze di filtrazione che si formano lungo i margini dei bacini idrici. La zanzara depone da 100 a 300 uova sulla superficie dell’acqua. Subito dopo può avviare la ricerca di un nuovo soggetto per il successivo pasto di sangue.

Le uova hanno una dimensione di circa 0,5 mm e sono deposte sulla superficie dell’acqua singolarmente o cementate tra loro. Schiudono dopo 2 o 3 giorni ma, nel genere Aedes, possono resistere a periodi di essiccamento anche di diversi mesi, attendendo condizioni più favorevoli al loro sviluppo.

La larva, da una dimensione di circa 1 mm si accresce attraverso quattro stadi di muta arrivando a misurare, dopo 7-10 giorni, 1 cm circa. Ricava nutrimento da frammenti di sostanze organiche presenti sulla superficie dell’acqua, come alghe e batteri, e acquisisce ossigeno atmosferico grazie ad una struttura respiratoria situata sugli ultimi segmenti addominali.

La pupa si origina in seguito alla 4° muta larvale e rappresenta uno stadio intermedio, della durata di 2-3 giorni, tra larva e alata. Non ha bisogno di nutrirsi, ma anch’essa, come la larva, deve respirare ossigeno atmosferico e rimanere perciò in contatto con la superficie dell’acqua.

L’alata neosfarfallata emerge da una fenditura dorsale della cuticola della pupa Si alimenta con sangue (solo la femmina) e con fluidi di origine vegetale; dopo circa 48 ore dallo sfarfallamento l’alata è matura per l’accoppiamento.

 

 

Zanzare Culicine e Anofeline

 

La vita della zanzara si intreccia strettamente con quella dell’uomo, che rappresenta la fonte vitale per il nutrimento della femmina del’insetto e per la prosecuzione della stessa specie.

La malaria non è l’unica patologia trasferita all’uomo dalla zanzara, abituale portatrice di virus e di parassiti legati a gravi malattie come la dengue, la febbre gialla e la filariosi.

Tra i generi più diffusi di zanzara, è importante saper operare una distinzione tra Anofelini e Culicini; a quest’ultimo appartengono le classi Aedes e Culex, che comprendono vettori di plasmodi in grado di parassitare gli uccelli e i rettili ma non i mammiferi.

Esclusivamente il genere Anopheles, in quanto serbatoio di malaria, costituisce una minaccia mortale per l’uomo. Non tutte le anofele, in verità, riescono a trasmettere i parassiti malarici: solo una cinquantina su 450 specie esistenti risultano essere idonee, con probabilità di successo che dipendono dall’interazione di differenti e numerosi fattori. Le due specie anofeline più pericolose, in particolare, prendono il nome diAnopheles gambiae s. s. e Anopheles Arabiensis e sono responsabili di non meno dell’80% delle infezioni malariche nel mondo.

Le condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo, alla riproduzione e alla longevità della zanzara anofele sono tuttavia estremamente diffuse nel pianeta: è sufficiente l’abbondante piovosità e umidità dei siti ed una temperatura che non scenda sotto i 18° C.

In Africa, il progresso socio economico delle zone rurali e degli insediamenti urbani, accompagnato da una serie di trasformazioni ambientali quali l’irrigazione di zone aride, le deforestazione o la desalinazzazione di aree costiere, ha causato paradossalmente un aumento dei focolai larvali di Anopheles gambiae s. s. e Anopheles Arabiensis, rendendo la situazione sempre meno controllabile.

Nei paesi temperati come l’Italia, al contrario, i principali vettori di malaria sfruttavano per il loro sviluppo biocenosi molto più complesse, ad esempio quelle fornite dalle paludi litoranee. L’antropizzazione del territorio ha dunque avuto un effetto opposto a quello attualmente osservato in Africa: la bonifica delle paludi, ad esempio, ha ridotto la disponibilità di siti di riproduzione delle zanzare, contribuendo alla scomparsa della malattia.

 

 

Il radar della zanzara. Localizzazione dell’ospite

 

Il problema principale degli insetti ematofagi consiste nel localizzare l’ospite per assicurarsi il vitale pasto di sangue. La soluzione è abbastanza semplice per le specie diurne, come i tafani o le mosche tze tze, ai quali la presenza dell’ospite è segnalata dal movimento, dalla forma e dai colori. Il discorso diviene più complesso quando l’attività dell’insetto è notturna, come nella zanzara, e l’assunzione del pasto richiede l’individuazione dell’ospite al buio, spesso all’interno di un rifugio. Gli insetti ematofagi hanno quindi sviluppata una serie di sensori chimici e fisici che permettano una precisa localizzazione dell’ospite, persino in assenza di uno stimolo visivo concreto.

L’anidride carbonica, prodotta in grande quantità dagli animali con la respirazione, indica alla zanzara la presenza dell’ospite ad una distanza di diversi chilometri. La zanzara entra quindi in una fase di ricerca attiva, iniziando a volare contro la direzione del vento e avvicinandosi all’origine dello stimolo. Segnali odorosi di varia natura (sudore, urina, sangue) hanno, accanto all’anidride carbonica, un ruolo fondamentale nel condurre la zanzara verso il suo obiettivo.

A circa 30 cm la temperatura del corpo dell’ospite, distinta da quella dell’ambiente, e l’aumento di umidità relativa, dovuto alla traspirazione, forniscono alla zanzara le informazioni finali per una precisa individuazione. La puntura avverrà dopo una breve esplorazione della superficie corporea.

 

 

LA MALARIA NELLA STORIA

 

Origini della malaria

 

La malaria ha accompagnato l’uomo nel corso di tutta la sua lunga evoluzione. I plasmodi sembrano derivare, infatti, da antichi parassiti che si riproducevano nelle cellule intestinali dei vertebrati e che venivano trasmessi da un ospite all’altro attraverso cisti presenti nelle feci.

Le quattro specie di plasmodi umani sono il risultato di percorsi evolutivi diversi e paralleli, come confermato da recenti studi di genetica molecolare. I parassiti più antichi sembrano essere Plasmodium vivax, Plasmodium ovale e Plasmodium malariae, che sono causa delle forme più benigne di malaria e che infettavano i nostri antenati milioni di anni fa.

Anche Plasmodium falciparum, peraltro, ha origini molto remote. I ceppi di questo parassita sono probabilmente riconducibili ad una forma patogena che si differenziò tra 10.000 e 6.000 anni fa in Africa, in seguito alla speciazione di vettori particolarmente efficaci nel trasmettere la malattia (quelli del complessoAnopheles gambiae) e ad una serie di trasformazioni umane, economiche, ambientali e sociali.

L’infezione malarica ha rappresentato a lungo una significativa sfida di adattamento per la popolazione; alla presenza fortemente condizionante della malattia, in presenza di una elevata concentrazione, sono state date «risposte» protettive diversificate per consentire la sopravvivenza umana.

Gli adattamenti biologici rivelatisi più efficaci sono costituiti da speciali anomalie genetiche dei globuli rossi, intervenute ad impedire lo sviluppo del parassita: ad esempio l’anemia falciforme, la talassemia e il deficit dell’enzima glucosio 6-fosfato deidrogenasi. Non a caso, i geni che causano queste emoglobinopatie sono maggiormente frequenti nelle regioni malariche.

Le popolazioni che vivono in zone calde sviluppano inoltre un’immunità parziale alla malattia; ma ciò si verifica solo dopo un lungo periodo di esposizione all’infezione, in genere a partire dall’adolescenza, e viene in ogni caso pagato con una mortalità infantile molto alta.

 

 

Malaria e mondo antico

 

Tra le malattie dell’uomo la malaria è certamente una delle più conosciute fin dall’antichità; numerose testimonianze relative a patologie febbrili, presumibilmente di origine malarica, compaiono già nei testi medici della civiltà dei Sumeri, degli Assiro-Babilonesi, degli Egizi e delle antiche popolazioni asiatiche. Presso queste popolazioni, i sintomi della malaria erano attribuiti al volere delle divinità e si tentava dunque di curarli, oltre che con pozioni di erbe medicinali, anche attraverso amuleti, riti magici e sacrifici.

Nel V secolo a.C. la malattia era sicuramente approdata nel bacino del Mediterraneo e penetrata in Italia; il medico greco Ippocrate descrisse le manifestazioni cliniche della malaria, distinguendo tra la tipologiaterzana e la quartana, ed associò l’ingrossamento della milza, tipico segno di infezione malarica, al fattore ambientale delle acque stagnanti.

Nell’antica Roma l’infezione rimase in sordina per molti secoli, anche grazie al puntuale funzionamento delle opere idrauliche realizzate in età repubblicana.

Ma all’inizio dell’Impero la situazione si aggravò; il Plasmodium falciparum, causa della terzana maligna, fece il suo ingresso nella penisola importato dall’Africa, mentre i cambiamenti climatici, l’ampliamento delle zone paludose (a seguito della deforestazione), l’abbandono dei lavori agricoli e delle pratiche di bonifica (provocati dalle guerre), facilitarono la diffusione di vettori efficienti come l’Anopheles labranchiae. Violente epidemie si manifestarono con ricorrenza nei secoli successivi, contribuendo non poco alla decadenza del mondo romano.

 

 

Massima espansione della malaria in Europa

 

Con l’inizio del Medioevo tutte le conoscenze mediche raccolte intorno alla malaria andarono sostanzialmente perdute e le febbri malariche, già riconosciute dalla scienza greca e romana, tornarono ad essere confuse con altre tipologie febbrili.

Se la causa della malattia veniva nuovamente ricercata nella collera divina o nelle congiunzioni sfavorevoli dei pianeti e degli astri, per rimediare agli attacchi e provocare l’espulsione di «umori» nocivi erano prescritte erbe medicinali, salassi, purghe ed espettoranti, oppure si praticavano dolorose cauterizzazioni sulla pelle.

Parallelamente furono dimenticate le antiche tecniche di canalizzazione e bonifica dei terreni e la malaria si propagò, specie a partire dal VI secolo, in gran parte dell’Europa, raggiungendo per la prima volta Inghilterra, Francia, Olanda e persino le regioni Scandinave. Nei paesi dell’Est europeo, descrizioni di febbri attribuibili alla malaria si hanno a partire dal XII secolo, mentre quattro secoli dopo la malattia arrivò anche nelle Americhe, probabilmente esportata dai primi conquistatori. La malaria, quanto a diffusione, fu seconda solo alla peste, vero flagello dell’epoca medievale.

 

 

La malaria in Italia alla fine dell’Ottocento

 

Alla fine dell’Ottocento la malaria interessava circa un terzo della penisola, particolarmente presente nel sud e nelle isole. Alcune delle zone più colpite erano le aree rurali del Lazio, le rive del Tevere e l’Agro romano e pontino, la Maremma toscana, la Sardegna interna, la Valle Padana, il Pavese e il Lario, la foce del fiume Ticino sul Lago Maggiore.

La prima statistica sanitaria nazionale, effettuata nel 1887, rilevava 21.033 morti per malaria in un anno; il numero complessivo dei casi era stimato intorno ai 2 milioni.

Le specie di parassita malarico diffusi nel paese erano tre, ma il Plasmodium Falciparum, responsabile della quasi totalità degli esiti fatali, costituiva la più grave minaccia. Frequente soprattutto nel meridione, provocava, infatti, la terzana maligna o febbre estivo-autunnale, che, comparendo all’inizio dell’estate, raggiungeva il picco massimo in agosto-settembre.

Il nord d’Italia, invece, soffriva maggiormente il Plasmodium vivax, causa della terzana benigna oprimaverile, raramente mortale ma spesso recidiva: la ricaduta si manifestava 25-30 settimane dall’infezione estiva e consentiva al parassita una nuova vitalità in corrispondenza con il risveglio primaverile dell’anofele.

Il Plasmodium malariae, infine, uniformemente sparso nella nazione, era il tipo più raro (6-20% dei casi totali). Riproducendosi nel sangue umano con minor velocità rispetto agli altri, determinava la febbre quartana, riscontrabile in particolare nel periodo autunnale. Plasmodium malariae era, d’altra parte, l’unica specie in grado di provocare ricadute malariche ad oltre 40 anni di distanza dal primo contagio.

La distribuzione dei tre tipi di plasmodio appena descritta, con una massima concentrazione della malaria grave nelle zone centro-meridionali, è palese indizio delle differenti condizioni economiche e sociali vissute nella nostra penisola; come già denunciava Angelo Celli, l’Italia risultava nettamente divisa fra regioni del nord e del sud, dove quest’ultime, terre di latifondo e di secolare sfruttamento, occupavano una posizione di evidente svantaggio.

 

 

LA RICERCA SCIENTIFICA

  

La scoperta del plasmodio

 

Nel novembre 1880, mentre operava come medico militare in Algeria, lo scienziato francese Charles Louis Alphonse Laveran (Premio Nobel nel 1907) approdò ad un importante risultato. Osservando al microscopio il sangue di un paziente affetto da malaria osservò degli elementi filiformi che si agitavano fra i globuli rossi a ritmo sostenuto e, sulla scia delle recenti ricerche sui microbi svolte da Pasteur e Koch, li identificò con i parassiti responsabili della malattia.

La scoperta di Laveran, tuttavia, fu accolta inizialmente con un certo scetticismo dalla comunità medica; trovò largo riconoscimento, infatti, solo dopo che, tra il 1883 e il 1885, gli italiani Ettore Marchiafava e Angelo Celli descrissero le forme pigmentate del parassita all’interno del globulo rosso e dimostrarono che il sangue di un soggetto malarico, inoculato a un individuo sano, poteva trasmettere l’infezione. La rilevazione di flagelli nei campioni ematici prelevati dai pazienti ed il riconoscimento di una fase di fecondazione di alcuni di questi, rendevano poi evidente la presenza di forme maschili e femminili in grado di dar luogo ad un ciclo di sviluppo.

Nell’autunno del 1885 il patologo pavese Camillo Golgi stabiliva l’esistenza di due specie diverse di parassita, Plasmodium vivax e Plasmodium malariae, ed associava la tipica ripetizione dell’attacco malarico alla segmentazione, ossia alla riproduzione del parassita e alla sua liberazione nel sangue.

La causa della terzana maligna, il Plasodium falciparum, fu infine individuato nel 1889 da Marchiafava e Celli, in seguito all’ideazione di un metodo di colorazione dei parassiti negli strisci di sangue; si chiarì, in questo modo, che quasi esclusivamente al Falciparum erano attribuibili le forme cliniche delle febbri estivo-autunnali e gli episodi mortali di malaria.

 

 

La scoperta del vettore

 

L’ipotesi che le febbri intermittenti fossero provocate non dalle esalazioni paludose ma dalla puntura di una zanzara infetta fu avanzata per la prima volta da Giovanni Maria Lancisi nel 1717 e sostenuta da altri scienziati nel corso del XIX secolo. Tuttavia, fu solo negli anni Novanta dell’Ottocento che, quasi contemporaneamente, i medici tropicali inglesi Patrick Manson e Ronald Ross ed il patologo italiano Amico Bignami, la proposero in forme scientificamente plausibili.

Nell’agosto del 1897, durante un soggiorno in India, Ross compì un ciclo di osservazione in zanzare con «corpi affusolati e ali macchiate» che aveva fatto nutrire su un paziente malarico; notò nel sangue dell’insetto lo sviluppo di corpi pigmentati che reputò essere «la forma alternativa del parassita della malaria». Il medico si concentrò successivamente nello studio del ciclo del plasmodio degli uccelli nelle zanzare (proteosoma) e dimostrò che queste potevano trasmettere l’infezione da un uccello malato a uno sano.

Ross non ebbe però modo di redigere una classificazione delle zanzare impiegate nell’esperimento, nè tantomeno seppe verificare in laboratorio se anche la malaria umana fosse trasmessa dalle zanzare.

A tutto ciò dette una risposta scientifica, invece, il comasco Giovan Battista Grassi. Biologo, parassitologo e malariologo, Grassi si era laureato in Medicina presso l’Università di Pavia ed aveva alle spalle l’esperienza di docente presso gli Atenei di Catania e Roma. Nel 1885 era stato nominato direttore dell’Istituto di Biologia di Roma ed aveva intrapreso una serie di importanti ricerche entomologiche ed epidemiologiche. Nel luglio del 1898, in collaborazione con Amico Bignami e Giuseppe Bastianelli, avviò una minuziosa inchiesta volta a confrontare le zanzare delle zone malariche e quelle delle zone non malariche d’Italia. Lo stesso Grassi si preoccupò della cattura degli esemplari di insetti, avventurandosi nelle inospitali paludi di Fiumicino, nell’Agro romano, e del Pian di Spagna, sul Lago di Como. Dopo aver distinto tre specie sospette quali potenziali vettori della malaria umana, Anopheles claviger (maculipennis), Culex penicillaris e Culex malariae, i tre scienziati si applicarono per alcuni mesi ad una serie di esperimenti presso l’Ospedale di Santo Spirito a Roma.

Nel settembre del 1898, finalmente, durante una seduta presso l’Accademia romana dei Lincei, annunciarono ufficialmente il successo della ricerca; un uomo che non aveva mai manifestato i sintomi della malattia, dopo l’esposizione alla puntura di Anopheles claviger, aveva contratto la malaria: era la prova che la zanzara anofele dalle ali maculate andava considerata il reale trasmettitore dell’infezione all’uomo. Dell’insetto, nelle sue successive osservazioni, Grassi studiò e descrisse, infine, l’intero ciclo di sviluppo, distinto in due diverse fasi, rendendo noto il nuovo risultato all’inizio di dicembre, sempre presso l’Accademia dei Lincei.

Ma se il Ross venne insignito del premio Nobel per la medicina già nel 1902, proprio per le sue indagini sulla malaria, Giovan Battista Grassi non ricevette mai il giusto riconoscimento sull’attività svolta, ben più meritoria di quella del collega inglese; tra i due scienziati, nacque, anzi, una disputa durata diversi anni, in realtà alimentata principalmente dal Ross. Non si può escludere che la maggior risonanza suscitata dalle ricerche di Ross, derivi dalla posizione preminente occupata dal governo anglosassone nello scacchiere politico ed economico internazionale d’inizio Novecento.

 

 

La Società italiana per gli studi della malaria (1898-1914/1926-1945)

 

Fondata nel 1898 dai deputati Giustino Fortunato, Leopoldo Franchetti, dal duca Onorato Caetani e dall’igienista Angelo Celli, la Società italiana per gli studi della malaria fu il primo organismo in Italia dedicato specificamente alla ricerca scientifica sulla malattia. Nella lettera circolare datata 14 luglio 1898, Fortunato e Franchetti, in polemica contro l’inerzia mostrata fino ad allora dal governo, denunciavano: «La malaria in Italia mantiene incolti 2 milioni di ettari; colpisce dove più dove meno 63 Province, 2823 Comuni; avvelena ogni anno 2 milioni ca di abitanti e ne uccide 15 mila. E’ impossibile valutare il danno economico inflitto al nostro paese da questa pestilenza».

La Società, cui aderirono i più affermati malariologi italiani (da Marchiafava a Grassi, da Bignami a Dionisi e Bastianelli), sostenne l’attività di stazioni sperimentali e di medici per la realizzazione di indagini entomologiche, inchieste sulla chimica e la farmacodinamica dei preparati chininici, ricognizioni sui mezzi di lotta contro i vettori, azioni di profilassi ed educazione antimalarica.

I resoconti di questi studi, insieme a numerose rassegne riguardanti l’epidemiologia della malaria e i progressi della malariologia in Italia e in altri paesi europei, furono pubblicati negli «Atti della Società per gli Studi della Malaria».

Accanto al lavoro di ricerca, un’intensa campagna informativa e di propaganda venne portata avanti attraverso la diffusione di opuscoli, fogli volanti e bollettini, insieme all’organizzazione di conferenze e incontri. La Società si fece inoltre promotrice di specifici programmi scientifici, legislativi e finanziari, disponendo, fra le altre cose, il servizio per la preparazione e la distribuzione del chinino di Stato; collaborò strettamente con la Croce Rossa e con diversi enti pubblici e privati italiani.

Dopo un’interruzione durata quattrodici anni, la Società venne ricostituita nel 1926 da Ettore Marchiafava, con l’aiuto della Rockefeller Foundation di New York. La sua attività tra le due guerre si sviluppò soprattutto nella zona dell’Agro romano, portando avanti lo studio sulla situazione epidemiologica e sui metodi di lotta. Fino al 1945 si occupò dell’edizione della «Rivista di Malariologia».

 

  

Il chinino

 

In Occidente, il primo rimedio rivelatosi efficace nel trattamento della malaria è stato il chinino, alcaloide di origine vegetale estratto dalla corteccia dell’albero peruviano Cinchona officinalis, appartenente alla famiglia delle Angiosperme.

La leggenda vuole che la sostanza venisse importata in Europa nel 1632 dalla contessa di Chincon, moglie del vicerè del Perù, dopo che, grazie al chinino, la nobildonna era guarita miracolosamente da una malattia febbrile contratta nelle Americhe. In realtà la contessa morì sulla via del ritorno, mentre la corteccia della china fu più verosimilmente introdotta nel vecchio continente dai gesuiti spagnoli. Ma, sperimentato per la prima volta presso l’ospedale romano di Santo Spirito, il chinino si diffuse comunque con il pittoresco nome di polvo de la condesa.

La polvere di china, ottenuta triturando finemente la corteccia essiccata dei rami, delle radici e del tronco della pianta, acquisì in tutta Europa fama di medicamento prodigioso contro le febbri intermittenti, anche in seguito alla guarigione di diversi personaggi importanti e di alcuni reali; rimase però a lungo un farmaco costoso e di difficile dosaggio, causando, se dato in quantità eccessive, effetti tossici.

Nel XVII secolo il francese La Condamine, durante una spedizione in Ecuador, analizzò le proprietà della pianta, che rinominò kina, ispirandosi al linguaggio delle tribù locali. Fu in virtù della sua specificità verso le sole febbri di origine malarica che il medico italiano Francesco Torti potè dimostrare, nel 1712, la diversa natura degli attacchi malarici ricorrenti rispetto alle altre patologie febbrili.

Nel 1820 venne identificata chimicamente la chinina, il principio attivo contenuto nella corteccia, e, facendo reagire la sostanza con acidi, furono preparati i primi sali.

Nel corso dell’Ottocento l’impiego del chinino fu esteso, oltre che a fine terapeutico, anche a quello preventivo e profilattico. Nel frattempo fu avviata la produzione industriale del farmaco e vennero condotti esperimenti per ricavare composti sintetici come la chinolina, la chinacrina e la plasmochina, efficaci ma ancora piuttosto tossici.

A tutt’oggi il chinino è ampiamente utilizzato per la terapia dei casi di malaria grave. Tuttavia, alla sua azione si è affiancata o sostituita una nuova generazione di farmaci antimalarici sintetici, scoperti da ricercatori americani e inglesi nel dopoguerra, di cui il più noto è la clorochina, messa a punto nel 1943.

 

 

La distribuzione e somministrazione del chinino di Stato

 

Il 23 dicembre del 1900, su iniziativa di Giovan Battista Grassi e Angelo Celli e per interessamento della Società per gli studi della malaria, fu sancita in Italia la prima legge per la distribuzione statale del chinino presso la popolazione. La sostanza cominciò ad essere venduta a partire dal 1° luglio 1902 ma solo in alcune province, negli spacci di sale e tabacchi a prezzo fisso e molto ridotto; ad enti pubblici, privati e ad organizzazioni filantropiche era fornita a costo di favore e quindi assicurata gratuitamente ai coloni, agli operai e ai poveri. Il provvedimento fu seguito da una nuova legge, la n. 209 del 19 maggio del 1904, valida questa volta per tutto il territorio nazionale.

In prevalenza, il chinino veniva somministrato per via orale sotto forma di sali, preparati dalla Farmacia centrale militare. Il bisolfato e il cloridato di chinino erano diffusi come confetti zuccherati, ognuno dei quali conteneva 200 mg di principio attivo: gli adulti (da 12 anni in su) dovevano assumerne 6-8 giornalmente, i bambini dai 6 ai 12 anni dai 3 a 5. Per i bambini fino a 6 anni di età si impiegava il tannato di chinina sotto forma di cioccolatini, contenenti ciacuno 140 mg di chinina pura. Più spesso, però, a questi veniva somministrato direttamente un cucchiaio di chinino polverizzato, fatto ingoiare un pò a forza tappando il naso per costringere ad aprire la bocca.

La cura con sali per via orale in genere doveva durare 15 giorni, seguiti da altrettanti di interruzione e quindi da una cura di mantenimento variabile. II trattamento preventivo generalmente si basava sull’assunzione di un paio di confetti al giorno per adulti e ragazzi, e di un cioccolatino per i bambini

Ma il sapore amaro del farmaco, insieme agli effetti collaterali che esso causava (vertigini, ronzio agli orecchi, stato di intontimento, talvolta nausea e vomito) faceva sì che il malato non sempre seguisse le prescrizioni del medico e prendesse il farmaco giusto per interrompere la febbre.

Nelle forme perniciose di malaria e nei casi di intolleranza al chinino per via orale si ricorreva alle iniezioni ipodermiche sottocutanee o più spesso intramuscolari. Allo scopo, lo Stato metteva a disposizione fiale di bicloridato di chinina, che tuttavia era acido e irritante: le iniezioni era molto dolorose e data la frequente mancanza di condizioni asettiche potevano provocare ascessi, necrosi o infezioni generalizzata.

Sostanze coadiuvanti del chinino come l’arsenico e il ferro, infine, venivano distribuiti in preparati come l’Esanofele, la famosa pillola nera prodotta da Felice Bisleri, e la mistura Baccelli, ricetta studiata dal prof. Guido Baccelli per indurre la «spremitura» della milza ingrossata e la liberazione di essa dai gameti malarici.

 

 

La lotta antianofelica con mezzi biologici

 

In Italia, la possibilità di sconfiggere la malaria mediante l’eliminazione dell’anofele venne studiata da Battista Grassi, da Angelo Celli e soprattutto da Claudio Fermi, che già nel 1909 riuscì a sterminare l’anofele sull’isola dell’Asinara. Prima che venissero scoperti gli insetticidi chimici e che si compissero le grandi opere di bonifica delle zone paludose, si era cercato in effetti di combattere la malaria anche con metodi naturali, certo più semplici e meno efficaci di quelli odierni, ma poco costosi e soprattutto non dannosi per l’ambiente. Contro le zanzare adulte venivano effettuate fumigazioni all’interno delle case, con fiori di piretro e radici di crisantemo o di valeriana. Il controllo delle larve si avvaleva dell’uso di larvicidi come il piretro e il petrolio e di operazioni di «piccola bonifica« che consentivano l’eliminazione dei focolai larvali vicini alle abitazioni.

E’ risaputo che le zanzare hanno bisogno dell’acqua, quindi, per evitare le condizioni favorevoli al loro sviluppo, venivano piantati alberi, frutteti, vigne: le piantagioni proteggevano il suolo dalle piogge, diminuivano il ristagno di pozzanghere ed assorbivano l’acqua in eccesso.

Un tempo si credeva che l’Eucalyptus tenesse lontano le zanzare grazie all’essenza della sua resina; nonostante ciò non sia esatto, la pianta, che cresce velocemente, è resistente ed assorbe molta acqua, risultava comunque utile a mantenere i terreni ben drenati.

I pipistrelli si nutrono di insetti e di conseguenza eliminano molte zanzare. Nell’Agro Pontino, come anche in America, erano frequenti costruzioni speciali per il rifugio dei pipistrelli, dove essi potevano trascorrere il giorno. In particolare, ne sono stati segnalati vicino a Nettuno, a Terracina e a San Felice Circeo (vedi foto pag. 10).

Le gambusie sono piccoli pesci molto voraci, distruttori di anofeli allo stato di larve e di ninfe. D’inverno vivono nei fondali, ma in primavera emergono in superficie in concomitanza con il periodo in cui le zanzare depongono le uova; alla ricerca di nutrimento, la gambusia elimina tutte le larve che vivono a fior d’acqua. Inoltre, questo tipo di pesce è molto fertile, arrivando a partorire durante la stagione calda anche cinque o sei volte e ciò moltiplica il suo potere distruttivo.

Nel 1900 il Bureau of Fisheries statunitense iniziò le ricerche sull’impiego della gambusia nella lotta antimalarica: nel 1907-1908 furono allevati e diffusi numerosi esemplari nelle Haway e nel Mississippi, contribuendo a liberare queste zone dalla malaria.

Nel 1922, a titolo sperimentale, il prof. Giovan Battista Grassi utilizzò la gambusia in quattro località: il lago di Porto presso Fiumicino, la vasca dell’idrovora di Ostia, un serbatoio di irrigazione a Vetralla in provincia di Viterbo e la piscina della Scardefa a Colonia Elena, presso San Felice Circeo. I risultati furono positivi: ancora nel 1938 vennero immesse circa cinquemila gambusie nei canali del Comune di Sabaudia.

La zooprofilassi consisteva nel costruire stalle e ricoveri per animali domestici intorno alla case, in modo che le zanzare venissero deviate e spinte a nutrirsi del sangue di questi, senza arrivare a pungere l’uomo. Il metodo non era però molto funzionale, in quanto esistono zanzare che traggono alimentazione esclusivamente dall’uomo.

Per difendersi dalla puntura dell’anofele, agli abitanti della zone malariche era consigliato apporre zanzariere a porte e finestre, per impedire alle zanzare di penetrare nelle case, ed indossare abiti pesanti, guanti e cappelli con fitti veli (protezione meccanica).

 

 

La lotta antianofelica con mezzi chimici. Il verde e il Ddt

 

La lotta antlarvale ebbe un notevole impulso grazie all’attività della Rockefeller Foundation, che nel 1924 introdusse in Italia l’uso del verde di Parigi o verde di Caffaro, un prodotto a base di acetoarsenico di rame miscelato all’1% con polvere di strada o talco. Impiegato come metodo elettivo dalla Stazione sperimentale per la lotta antimalarica, istituita nel 1925 sotto la guida di Alberto Missiroli, e successivamente dal Laboratorio di malariologia dell’Istituto di sanità pubblica, veniva regolarmente sparso con speciali pompe sulla superficie dell’acqua dalla prima settimana di marzo alla prima settimana di ottobre.

Agli inizi degli anni ’30, poi, si osservò che gli insetticidi spray a base di fiori di piretro, se spruzzati sulle pareti domestiche, avevano un effetto repellente, tenendo le zanzare a distanza. Tuttavia il piretro, per risultare valido, doveva essere usato in forti quantità ed aveva comunque una durata abbastanza limitata nel tempo.

Nel 1942 giunsero negli Stati Uniti, dalla Svizzera, alcuni campioni di un prodotto di sintesi, la cui azione insetticida per contatto era stata dimostrata dal chimico Paul Muller nel 1939. Il prodotto era già stato immesso sul mercato svizzero dall’industria farmaceutica J. R. Geigy co. di Basilea come Gerasol, utilizzabile per la lotta contro i parassiti delle piante, e Neocid, per la lotta contro i pidocchi. Il nuovo insetticida, che gli americani ribattezzarono Ddt (dicloro – difenil - tricloroetano), si dimostrò efficace contro diversi tipi di insetti, incluse le zanzare allo stadio di larva o adulte.