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La Storia dell'Agro Pontino

Volsci e Romani

 

Pietro Incardona 

 

Con il nome di "Agro Pontino" viene indicata quella zona che si estende dalla radice del cono vulcanico laziale sino a Terracina, fra la catena dei Monti Lepini - Ausoni e il mare.

Molti particolari si tramandano sulla floridezza del territorio, dovuta probabilmente all'ingegnoso sistema di drenaggio delle acque meteoriche e sorgive, ideato dai Volsci, e sullo stato estremamente fiorente delle città allora esistenti, frutto di eccellenti produzioni agricole, che favorivano commerci e traffici vantaggiosi, con indubbia ricchezza per le popolazioni residenti. La scarsezza dei ritrovamenti archeologici pone alcune ombre su quanto si tramanda al riguardo.

Infatti, delle oltre trenta città di cui si parla, oggi ne rimangono solo quattordici, alcune delle quali sorgono in siti che distano alquanto da quelli originari, come Artena, Anzio (Antium), Roccamassima (Cervetum), Nettuno (Cenone), San Felice Circeo (Circellum), Cisterna, Cori (Cora), Norma (Norba), Priverno (Privernum), Sezze (Setia), Segni (Signia), Sermoneta (Sirmio), Terracina (Anxur), Velletri (Velitrae), le altre sono scomparse del tutto come Albiola, Astura, Corioli, Ecetra, Longula, Mugilla, Polusca, Satricum, Suessa Pometia, Tivera, Ulubrae.

Di questi insediamenti dissoltisi nel nulla Plinio il Vecchio disse: "interiere sine vestigii", ovvero "perirono senza lasciare alcun ricordo", altre ancora si sono mantenute, almeno nel nome, nel corso dei secoli, giungendo a noi come Foro Appio (Forum Appii), Ninfa (Nymphae), Tre Taverne (Tres Tabernae), Tre Ponti (Tripontium).

Alcune di queste sembra che non siano state fondate dai Volsci, ma che preesistessero alla invasione di questi popoli, originari della Valle del Liri, in quanto pare fossero colonie latine o, addirittura, etrusche.

Gli autori antichi, sia greci che latini, tra i quali Virgilio nell'Eneide e segnatamente gli storici Tito Livio, Dionisio, Plutarco, Diodoro, Plinio il Vecchio, Dionigi di Alicarnasso ed altri, parlano del territorio pontino, magnificandone le città e la feracità dei terreni. Tutto ciò, quindi, avvalora la tesi, poi definitivamente accertata, che la cosiddetta palude pontina sia stata preceduta da un fiorente "Ager", l'Agro Pontino.

Le guerre tra Romani e Volsci, protrattesi per oltre 200 anni, ebbero in principio carattere episodico, poi, con la fondazione di città e di nuovi insediamenti come gli accampamenti fedeli a Roma, tra i quali le colonie militari di Norba (Norma), Setia (Sezze Romano) e il castrum di Bassiano, le posizioni si irrigidirono e si arrivò allo scontro finale con la conquista dell'intero territorio da parte dei Romani.

Priverno, l'ultima roccaforte Volsca, cedette agli invasori nel 328 a.C. e   da  questa   data  si   può  considerare  l'inizio  della  decadenza  del territorio pontino, da quando cioè, i conquistati Volsci, abbandonarono  la manutenzione  delle opere  idrauliche da essi stessi realizzate, per seguire come milites  i conquistatori Romani, nelle loro successive guerre di espansione verso il meridione.

I Romani, pur non avendo interessi di carattere agricolo su quella zona, di cui si erano appropriati i patrizi, costituendo quel primo latifondo che si è protratto, come vedremo, fino agli albori del 1930 ed in alcuni casi anche oltre, avevano, invece, la necessità di attraversarlo ed anche rapidamente, per proseguire le loro conquiste verso il sud della penisola italica.

Da quì la costruzione di una strada militare, voluta dal censore Appio Claudio nel 312 a.C., il più rettilinea possibile, che permettesse il rapido raggiungimento di Capua, durante la seconda guerra Sannitica, in alternativa alla tortuosa via Latina (l'attuale via Casilina), che si snodava lungo la valle del Sacco e del Liri.

I lavori di costruzione di questa strada, poi chiamata Appia in onore del suo ideatore, "in censura viam Appiam stravit", così lo elogiò Augusto nel suo Foro, proseguirono fino al 191 a.C., allacciando, via via, città come Benevento, Venosa, Taranto ed infine Brindisi, e regioni come la Campania, l'Irpinia, la Puglia, la Lucania e il Bruzio (Calabria).

L'interesse espansionistico dei Romani, dunque, non favorì il mantenimento del territorio, bonificato con tanto sacrificio dalle popolazioni volsche, bensì causò, anche se non volutamente, il ritorno della palude.

Circa 150 anni dopo i primi lavori dell'Appia, anche a causa del completo abbandono delle opere di bonifica che, ripristinando la palude, di fatto allagarono la "regina longarum viarum" dei Romani, secondo la definizione di Stazio, venne realizzata, nel 159 a.C., per volontà del Console Marco Cornelio Cetego, una fossa parallela alla strada stessa, con il compito di far defluire le acque verso mare e, come rivela Tito Livio, per questo intervento il Console ricevette, a titolo di ricompensa dal Senato Romano, un appezzamento di terreno.

La fossa, fatta scavare da Cetego, fu chiamata Decemnovio, appunto perchè lunga 19 miglia romane, collegante Forum Appii (Borgo Faiti) ad  Anxur (Terracina).

Il "Forum", importante centro di vita pubblica della società antica, formava uno strategico snodo idraulico - stradale con la Via Appia, il Fiume Cavata e il Decemnovio appunto, tanto da poterlo definire, oggi, un vero e proprio porto fluviale, dal quale ci si poteva imbarcare per far rotta su Terracina, percorrendo, durante la notte, i 35 chilometri che dividevano Forum Appii dalla località Le Mole, all'altezza della punta di Monte Leano, dove pare sorgesse un tempio dedicato alla Dea Feronia dai Lacedemoni, esuli della greca città di Sparta, come narra  Dionigi di Alicarnasso , oppure luogo dove sgorgava   una  fonte   come    dice    Orazio,   "ora   manuque   tua  lavimus   Feronia  limpha" (Satire,I, 5).

Uno spaccato del "Forum" e la descrizione  del  viaggio  in  barca  fino  a  Terracina ci  è tramandato ancora dal poeta romano Orazio, che nella Satira V, scrive  "ed ecco Foro Appio,  brulicante  di barcaioli  e locandieri bricconi...... Perfide zanzare e rane abitatrici di paludi si portano via il sonno".

Ma la storia si ripete ancora una volta; le guerre di Roma, in questo caso intestine, provocano nuovamente l'abbandono di queste fertili terre con il conseguente ineluttabile ritorno degli acquitrini e della palude.

Merita di essere ricordato il tentativo di bonifica che avrebbe voluto realizzare Giulio Cesare, mediante la costruzione di un lunghissimo canale che da Roma, attraversando tutta la pianura pontina,  raccogliesse  le acque del corso inferiore del Tevere e dei Lepini, per condurle a mare all'altezza di Terracina, ove realizzare un porto in acque protette dal libeccio, che, invece, imperversava al Circeo, rendendo difficoltoso lo sbarco delle merci e dei passeggeri diretti a Roma.

Questo avrebbe permesso il raggiungimento di due obiettivi : la liberazione della vasta area occupata dal Campo di Marte a Roma, destinandola all'edilizia pubblica e privata, nonchè il prosciugamento delle paludi pontine.             

Il progetto rimase solo nel pensiero di Cesare, ma non morì con il dittatore; Augusto, infatti, lo riprese e, come ci racconta ancora il nostro Orazio nelle Satire, le terre pontine ritornarono fertili, navigate e coltivate, tanto da produrre il fabbisogno alimentare per tutte le popolazioni del circondario.

Anche lo storico d’origine greca, Dione Cassio Cocceiano, narra nei suoi scritti (Storia Romana), del tentativo demagogico di un certo Marco Antonio, fratello di Lucio, Tribuno del popolo, che legiferava le regole per l'assegnazione alla plebe di quelle terre, prossime a Roma, che andavano liberandosi dalle acque.

Il velleitario tentativo, però, produsse nel tempo il ritorno al latifondo, con i patrizi che riprendevano il possesso delle terre che i plebei non riuscivano a tenere sgombre dalle acque.

Un altro famoso Imperatore si cimentò nell'impresa della bonifica, quel Nerone, ricordato più per l'incendio di Roma che per altro, cui va ascritto il tentativo di collegare Ostia al Lago Averno (Baia) attraverso un canale, estendendo l'idea di Cesare che si era limitato a Terracina. Ma il progetto, partito con la costruzione del canale da Averno, si dovette interrompere ben presto per le enormi difficoltà sorte in corso d'opera.

L'impresa affascinò altri imperatori, tra i quali Nerva, ma i risultati furono,  invero,  modesti,  se  si  tiene   conto   che   le   opere  che  si ricordano sono limitate ad alcuni interventi di riparazione dell'Appia, da Foro Appio  fino  al Tempio  di  Feronia,  ovvero  più che di opere di bonifica si può parlare di opere volte al mantenimento della transitabilità di un arteria viaria riconosciuta di vitale importanza per i Romani.

L'ultimo Imperatore romano, che si può dire abbia inciso in maniera  concreta  sul territorio  pontino,  può  essere indicato in quel Traiano, cui si deve il Ponte Maggiore nei pressi di Terracina, alla confluenza fra la fossa fatta scavare da Cornelio Cetego ed i fiumi Ufente ed Amaseno, nonchè un primo tentativo di costruzione del porto di Terracina, completato, circa 50 anni dopo, dall'Imperatore Antonino Pio.

Siamo nel 161 d.C, bisogna attendere più di 300 anni per vedere ancora qualcuno interessarsi del territorio pontino, che naturalmente è precipitato, come i secoli addietro ci hanno insegnato ad apprendere, nel più profondo abbandono, ritornando, di conseguenza, nella palude.

Dunque, dopo l'abbandono e il conseguente straripamento delle acque in destra e sinistra dell'Appia, il territorio sprofonda nella più completa depressione, riproponendosi come quel deserto di colture e di abitanti, la cui storia, dopo i Volsci fino alle prime attenzioni dei Romani, abbiamo documentato.

 

Gli Ostrogoti        

 

Nel 493, dopo numerose scorrerie di popoli barbari (Visigoti e Vandali), che decretarono di fatto la decadenza dell'Impero Romano d'occidente, si insediano in Italia, con il benestare dell'Imperatore Bizantino, Zenone, gli Ostrogoti, popolo di origine germanica.

Al re di questo popolo, Teodorico, lo storico Cassiodoro assegna il testimone, che gli perviene da Traiano in un simbolico passamano, per continuare l'impresa interrotta. Infatti Teodorico, nel 495, autorizza il patrizio Mauro Basilio Decio, della famiglia dei Decii, che ne aveva fatto richiesta, di procedere ai lavori di bonifica del territorio, con l'intento primario di recuperare la transitabilità dell'Appia.

Il premio per questo lavoro sarà il possesso delle terre recuperate alle acque e la garanzia di tutela da possibili eventuali diritti accampati dai precedenti proprietari.

L'impresa ebbe successo, come ci viene tramandato dagli storici Cassiodoro e Procopio e come si rileva dalla iscrizione presso il Tempio di Apollo a Terracina; furono restituite dalle acque terre comprese fra Tre Ponti e Terracina, per una lunghezza pari a circa 38 chilometri ed una estensione di circa 20.000 ettari, ma quali furono le opere idrauliche  che permisero tale successo non ci è dato conoscere,  salvo forse   alcune   supposizioni  che  potrebbero   trovare  conferma   nel proseguo del racconto, quali, ad esempio, lo scavo di un canale, meglio conosciuto come fiume Antico.

In seguito, essendo venuta a mancare, trattandosi di latifondo, l'opera dei coloni che avrebbero potuto consolidare con il loro lavoro la bonifica ed in conseguenza delle guerre che si scatenarono fra i Goti ed i Bizantini, la palude riprese il sopravvento.

 

Le Abbazie

 

Gli unici interventi degni di nota possono essere considerati nell'Alto Medioevo quelli intrapresi dai monaci benedettini e cistercensi, che costruirono ai piedi dei Monti Lepini ed Ausoni le loro Abbazie, dalle quali cominciarono ad esercitare l'opera di bonifica attraverso una agricoltura estensiva, l'allevamento del bestiame e le peschiere. Per questo motivo Valvisciolo (IX Sec.) e Fossanova (XII Sec.) divennero i primi centri di colonizzazione, sia per le attività produttive, che presupponevano il mantenimento del territorio, che, soprattutto, per il sorgere, in loro prossimità, di aziende e fattorie destinate all'accantonamento delle produzioni.

 

I Pontefici (800 - 1765)

                

Intorno all'anno 800, al tempo dell'incoronazione di Carlo Magno a Roma, le Paludi Pontine passano, per effetto di una donazione, sotto la giurisdizione dei pontefici romani.

Dopo l'estromissione dei Goti dall'Italia, il primo pontefice che si interessa di bonifica è Bonifacio VIII (Benedetto Caetani 1235-1303). Ma il suo interessamento non fu teso a sanare la plaga della palude, bensì, fu mosso da motivi personali.

Infatti, si narra che, avendo acquistato dalla famiglia Annibaldi alcuni feudi (Sermoneta, Ninfa, Bassiano, S.Donato e S.Felice), come pure Norma dai Giordani e Astura dai Frangipane, per donarli al nipote Pietro Caetani e ad altri parenti, poichè questi risultavano perennemente allagati, presumibilmente per l'interrimento del Rio Martino, pensò di far realizzare un nuovo "cavo", per raccogliere le acque del Teppia e del Ninfa, causa degli allagamenti, e trasferirle tramite questo nel fiume Cavata.

Il suo progetto rispose solo in parte alle attese, in quanto solamente l'area più alta della pianura, corrispondente alla piana di Sermoneta, venne bonificata, mentre l'area più depressa, corrispondente ai Campi Setini, venne allagata del tutto a causa delle basse arginature del Cavata, incapaci di contenere nell'alveo l'aumentato flusso delle acque, che gli provenivano dai citati affluenti.

Il risultato del progetto produsse un feroce scontro tra Sermonetani e Sezzesi, che si è protratto  per quasi 500 anni  e che ancora oggi si riflette, anche se solo negli atteggiamenti campanilistici, nei rapporti fra le due popolazioni.

Si riprende a parlare di Paludi Pontine con il pontificato di Martino V (1417 -1431).

Il Pontefice, profondo conoscitore del territorio per averlo studiato durante la sua esperienza di Cardinale Camerlengo, una volta acquisiti i poteri del soglio di S.Pietro, volle misurarsi immediatamente con quell'impresa che da secoli sfidava l'uomo a venirne a capo.

Le risultanze degli studi tecnici, da Lui commissionati a valenti ingegneri dell'epoca, si tradussero nella necessità di aprire un gran cavo, con argini molto alti, capace di condurre a mare, con un percorso il più breve possibile, la notevole quantità di acque che si raccoglieva nella parte superiore del territorio prossimo a Cisterna e Sermoneta.

La soluzione del problema era già in essere: il riescavo dell'antico canale, di presunte origini etrusche, rispondente al nome di Riguus Martinus, denominazione che ci perviene da un documento dei tempi di Papa Gregorio VII (1073 - 1085), interritosi per secoli d’abbandono, che rispondeva ai requisiti richiesti, lunghezza sette chilometri, altezza degli argini 18/20 metri, larghezza dell'alveo, da sponda a sponda, oltre metri 90.

Questo "cavo" faceva il paio con un'altra grande opera antica chiamata Gorgo Lecino (oggi Gorgolicino) ed entrambi attraversavano la lunga collina che separava le paludi dai laghi costieri, per sfociare a mare la prima le acque del Ninfa, la seconda le acque dette Superiori provenienti dalla gronda di nord-ovest.

Ma la morte del Papa interruppe l'evolversi del progetto e anche gli obiettivi di liberare quei territori dall'acquitrinio.

Questi stessi territori furono oggetto di ulteriori attenzioni dei pontefici, che si susseguirono fino al 1464; fra gli interventi di bonifica, peraltro non completamente riusciti, si ricordano quelli di Eugenio IV (1431-1447) prima e di Pio II (1458-1464) dopo, che tentarono di realizzare un canale che raccogliesse le acque dei fiumi Acquapuzza e Ninfa, per liberare dalla palude i noti terreni delle piane di Sezze e Sermoneta.

La bonifica vera e propria si ravviva nel Rinascimento, sotto il pontificato di Leone X (1513 - 1521).

Siamo nel 1514, quando questo Papa, desideroso di legare il suo nome ad una grande opera, pensa di adempiere al comandamento pliniano,  "siccentur   Paludes   Pomptinae,   tamtuque   agri   suburbani reddantur Italiae", cercando il recupero della vasta area pontina alle porte di Roma.     

Figlio del famoso Lorenzo de'Medici, detto il Magnifico, avviato sin da piccolo alla carriera ecclesiastica, eredita dal padre il gusto del bello e la vocazione dell'impresa; quest'ultima lo spinge appunto a proseguire sulla strada già più volte intrapresa nel passato dai suoi predecessori sul soglio di Pietro e da tanti altri illustri personaggi dell'antichità.

Non è solo la ricerca della fama che lo induce a tentare, ma anche le necessità di carattere sociale, che lo obbligano a dover sopperire a quelle esigenze alimentari, che l'esplosione demografica della popolazione romana di quei tempi poneva in modo prioritario.

Dunque, quale miglior soluzione se non quella di ripristinare la fertilità di antica memoria della terra pontina ?

A due passi da Roma c'era la possibilità di compiere in un sol colpo un'opera storica, sociale e politica, e Giovanni de'Medici, al secolo appunto Leone X, non se la fece sfuggire.

L'unico vero problema era posto dalla scarsezza delle risorse economiche della "cassa" pontificia, per superare la quale il Papa si rivolse al fratello Giuliano, donandogli, "motu proprio", il 7 luglio 1514, le terre delle paludi pontine che sarebbe stato capace di liberare

dalle acque, a proprie spese, per un compenso di cinque libbre di cera, da pagarsi ogni anno alla vigilia di San Pietro.

Giuliano, grande amico di Leonardo da Vinci, conosciuto alla corte fiorentina del padre Lorenzo, affida a questi l'incarico di studiare il progetto dei lavori.

Il genio vinciano si porta nella palude, la studia a fondo dal punto di vista idraulico e disegna una mappa, il cui originale, oggi, è conservato in Inghilterra nella Royal Library di Windsor.              

Il progetto che ne scaturisce si basa sulla escavazione di due canali, uno destinato a condurre a mare le acque della palude superiore (Rio Martino), l'altro quelle della palude inferiore (Portatore).           

Per far fronte alle ingenti spese che la realizzazione del progetto comporta, Giuliano chiede ed ottiene la partecipazione di Domenico De Iuvenibus, importante uomo della Curia romana, mentre, quale direttore dei lavori, nomina il geometra Giovanni Scotti.

Il primo intervento, peraltro molto ostacolato dai terracinesi, fu effettuato con lo scavo del Portatore (all'epoca fiume Giuliano) che avrebbe dovuto condurre le acque alla foce di Badino.

Il risultato fu certamente notevole perchè, in men che non si dica, grandi   distese   di   territorio   furono   restituite all'agricoltura, con benefici indubbiamente sostanziosi per l’economia locale che si fondava, soprattutto in quell'epoca, solamente sulle peschiere, che la palude  rendeva  possibili  con  le  sue   numerose    piscine,  e  per  la difesa delle quali i terracinesi, in particolare, si batterono ricavandone, comunque, congrui risarcimenti, che gravarono sulle "casse" di Giuliano e del De Iuvenibus.

Nel 1516, la morte prematura di Giuliano non arresta il processo di bonificazione in atto, che prosegue  sotto la conduzione di Lorenzo de' Medici, Duca d'Urbino e nipote di Leone X, che subentra  allo zio defunto nel "motu proprio" papale del 1514, con gli stessi benefici ed incombenze.        

Il passaggio delle consegne fu l'occasione per riaprire la diatriba, mai sopita, fra i terracinesi e la Camera Apostolica, che si estremizzò con la chiusura della foce di Badino ed il conseguente ritorno della palude.                                    

Devono trascorrere più di settant'anni perchè un altro pontefice si interessi ancora di bonifica; questi risponde al nome di Sisto V (1585 - 1590) che, per risolvere la disputa che da oltre 350 anni vedeva coinvolti Sermonetani e Sezzesi, che lui ben conosceva, si dice, per aver soggiornato prima della sua elezione a Sezze, pensa, in primis, ad un intervento mirato alla risoluzione di questo contrasto.

Certo è che il problema "bonifica", che si è visto aveva così lungamente coinvolto molti dei  suoi predecessori, non lo lasciò insensibile, anche perchè, oltre al tentativo di risolvere l'annosa disputa, pare abbia intuito le notevoli capacità produttive di questo territorio, che, una volta liberato dalle acque, avrebbe potuto rendere con le sue coltivazioni una entrata consistente per l'Annona romana.        

Il 28 marzo 1586 incarica l'architetto urbinate, Ascanio Fenizi, di provvedere al recupero di tutte quelle terre dei Comuni di Sezze, Priverno e Terracina, che l'acqua aveva invaso, con l'impegno di remunerare la Camera Apostolica con il cinque e mezzo per cento dei cespiti ricavati dalle loro coltivazioni.       

Il tecnico di Urbino, nel programmare i lavori, escluse da subito l'utilizzo, per lo sgrondo delle acque, del percorso più breve del Rio Martino, a favore di quello, invece, assai più lungo del fiume Antico, perchè il riescavo del primo avrebbe comportato ingenti spese, mentre il secondo si sarebbe ben adattato alle esigenze, consentendo anche sostanziose economie.                             

Nella primavera del 1589 i lavori possono dirsi conclusi; l'acqua scorre lungo gli argini del fiume Antico, che ora si chiama fiume Sisto, in onore del pontefice, sfociando  a mare all'altezza di Torre Olevola.

Il risultato conseguito dai lavori, al costo di circa 200.000 scudi, fu il recupero di 4.600 ettari di terreno altamente fertile, destinato subito ad una fiorente agricoltura.

Il Papa ne fu talmente entusiasta che, nel corso dello stesso anno, si recò nel territorio bonificato per prendere visione personalmente dei risultati.

Il viaggio, però segnò il destino di Sisto V, che durante la visita contrasse una malattia, presumibilmente la malaria, che l'anno dopo lo portò alla morte, compromettendo ancora una volta quella bonifica tanto agognata.

Infatti, sia per la morte del Pontefice, che per una serie di cavilli giuridici che si interposero fra i concessionari dell'opera di bonifica e i Comuni, che esercitavano i diritti degli usi civici sull'area da bonificarsi, il progetto, così ben avviato, sembrò arenarsi.

A nulla valsero i tentativi dei successori di Sisto V, che nonostante incaricassero fior fiore di tecnici, provenienti dall'estero, come gli olandesi Cornelio Wit (Urbano VIII nel 1637) e Cornelio Meyer (Innocenzo XII nel 1699), nonchè il fiammingo Niccolò Van der Pellens (Alessandro VII nel 1659), trovarono una ferrea resistenza nelle popolazioni dei Comuni di Sezze, Priverno e Terracina, che dissuasero qualunque tentativo portato avanti anche dagli italiani Paolo Marucelli  (Innocenzo X nel 1648) e Livio Odescalchi  (Clemente XI nel 1701).

Intorno al 1729 si riprende di nuovo a parlare di progetto della bonifica, ovvero si passa dalla concessione pluriennale allo studio di massima.

Benedetto XIII (1724 - 1730) incarica in quell'anno gli ingegneri Bertaglia e Ramberti di elaborare un piano di bonifica, prevedendo interventi di carattere idraulico e manutentorio, che la Camera Apostolica avrebbe dovuto eseguire a proprie spese, nonchè i relativi costi di attuazione.

Lo studio di Bertaglia, nonostante la sua accuratezza ed i suggerimenti interessanti, rimane ancora una volta il libro dei sogni e lascia l'area pontina come un immenso stagno lungo 50 chilometri e largo 15, come lo descrive Johann Caspar Goethe  nel suo Viaggio in Italia del 1740.

Tra il 1759 ed il 1765, sotto il pontificato di Clemente XIII (1758 - 1769), Monsignor Emerico Bolognini, il Geometra Angelo Sani ed il Cardinale Baldassarre Cenci sono gli ultimi ad impegnarsi nel contesto "bonifica", prima dell'avvento di Pio VI.

 

Riflessione

                

La bonifica della palude pontina pare, dunque, una "maledetta" impresa, che da secoli arrovella le menti di valenti uomini, senza che questi  siano  capaci  di  venirne a capo.  Eppure, in molte  occasioni è

parso di arrivare alla meta, ma la forza dominante della natura ha finito  sempre con  il prevalere. E'  mancata la  continuità,  essenziale elemento che sarebbe stato in grado di garantire il successo, coniugandolo con il contenuto di un buon progetto.

Ciò è quanto è accaduto nella seconda metà del '700, in pieno illuminismo; un Papa, ancora un pontefice romano, lega il suo nome al tentativo di bonifica della palude pontina, questa volta, però, la "maledetta" impresa sembra riuscire.