Massimiliano Vittori
«Il mondo di Duilio Cambellotti è il mondo del mito: egli ha vissuto con la sua cultura e la sua anima in mezzo alle figure della tragedia greca, della poesia epica latina, della storia romana e italica, con una pienezza di fede e di gioia che supera quelle che egli possa aver assunte da plaghe della vita e dell’arte moderna.» (1)
Questa breve estrapolazione dalla «nota critica», che Ettore Cozzani impresse sulle pagine de «L’Eroica» nel 1937, risulta quantomai efficace e significativa per inquadrare la spiccata personalità di uno degli artisti italiani più geniali e poliedrici del XX secolo. E proprio la trattazione evocatrice del mito sta alla base della ricerca cambellottiana, così come tutto il suo percorso espressivo ed umanistico è decisamente caratterizzato dalla presenza di un simbolismo paganeggiante ed arcaico, che trova soprattutto nella storia latina e romana le corrispondenze più dirette (2).
L'antifonario simbolico cambellottiano, popolato di miti sacri e riferimenti leggendari, appare come espressione profonda e insostituibile di quel weltbild che racchiude il comune sentimento di un popolo e il suo divenire storico; come l’approccio immediato e irrazionale alla conoscenza in relazione alla funzione metacognitiva del simbolo ed alla sua funzione eziologica.
Il mito, nel momento in cui delinea l'immagine evocata nel suo significato esoterico, desta un presagio, restituisce la conoscenza alla sua immediatezza concreta ed alla sua purezza originaria, coglie l’esperienza stessa alla fonte.
Se le Leggende romane ruotano tutte attorno al mito della fondazione di Roma, il ciclo delle copertine de «La conquista della terra» è imperniato sulla divulgazione di un mitologema della contemporaneità: la fondazione delle nuove città pontine, un «miracolo cui ho assistito», secondo la straordinaria rievocazione dell’artista, che diventa ancora più significativa se si pensa al tempo in cui fu espressa (3).
Le 51 tavole complessive che ornano altrettanti numeri della rivista ufficiale dell’Onc, dal 1935 al
Cambellotti, assieme ad altri «apostoli», era stato particolarmente attivo nella realizzazione delle scuole per i contadini delle Paludi pontine, ma aveva anche attraversato quel territorio vasto e desolato come un argonauta sulle tracce di civiltà ormai scomparse, evocatrici di un sentimento comune di appartenenza: «E’ naturale, […] che io non mi recavo in campagna con la cassettina dei colori e il cavalletto a tracolla; non potevo concepire questa copia della campagna ormai già divenuta arcadica ed accademica: tanto valeva portare una macchina fotografica. Sentivo che tutte quelle cose ancora avvinte alla zolla avevano una loro vita, una loro filosofia, che l'opera d'arte era il mezzo perché fosse sviscerata e mostrata» (4).
L’arte di Cambellotti, antipodica a quel naturalismo autocompiacente comune a gran parte degli artisti suoi contemporanei, ricerca sempre una relazione mitica e simbolica con le civiltà del passato. Anche nella rappresentazione dei contadini e degli abitatori della plaga malarica l’artista rimarca caratteristiche di fierezza, piuttosto che di compassione: così per il pastore «avvolto nel mantello ampio come una toga antica», per il buttero a cavallo «guerriero cavalcante […] evocatore di età primeve» e per il bracciante agricolo, il quale, animato dal suo sogno generoso di riscatto sociale, diventa «il vero eroe di questo ambiente tragico».
Nella visione epica dell’Agro romano-pontino, la grande capanna conica, precario rifugio di disperati migranti, emerge dalla campagna come un «tholos miceneo» e le numerose altre rievocazioni, rimandano a visioni immaginifiche «… che riconducono il visitatore a tempi lontani, nei millenni della storia mediterranea».
Secondo Maurizio Fagiolo dell’Arco «in quel fuori di porta quotidiano che è
Un altro aspetto centrale della sua attività di illustratore riguarda l’epopea tragica ed eroica della Grande guerra, soprattutto in relazione alla collaborazione con «Il piccolissimo» - rivista edita dal Comitato laziale dell’unione insegnanti italiani - le cui tavole, essenziali nel segno ed esplicite nel messaggio, affrontano il tema del combattentismo, dell’eroismo, dell’amor di patria, con lo sguardo sempre rivolto al mondo rurale, quasi preconizzando la rivoluzione socio-politica ormai alle porte6. Stilisticamente questi lavori ribadiscono una coerenza espressiva nella semplificazione della forma e nella agnizione del precetto, costituiscono inoltre il raccordo ideologico fondamentale alla costruzione del mito della nuova Italia.
Negli stessi anni in cui gli abitatori della palude vivevano ancora nelle lestre, come sospesi in una perenne e immutabile antichità contemporanea, i luoghi andavano modificandosi sempre più rapidamente e con le modificazioni idrografiche e geografiche andava compiendosi nel pontino una delle più radicali ed epiche opere di trasformazione ambientale e sociale.
I primi rilevamenti delle quote dei terreni, tracciati dai soldati dell’Istituto geografico militare, risalgono al 1926; l’inizio dei lavori di risanamento idraulico al 1927. Nel dicembre del 1928 fu promulgata la legge fondamentale della bonifica integrale, secondo la quale era necessario prosciugare le paludi, canalizzare le acque, irrigare le terre esposte alla siccità, studiare i terreni al fine di migliorarne la resa, provvedere all’opera di appoderamento e di distribuzione della terra. Il concetto della bonifica integrale consisteva anche nel completare l’opera di risanamento e di ammodernamento in un tempo piuttosto breve, per evitare che l’inerzia rendesse vani gli sforzi finanziari e la malaria, sempre in agguato, tornasse a colpire. La bonifica integrale rappresentava la massima espressione della politica sociale, agricola e ruralizzatrice, del regime fascista.
Il compito della redenzione agraria e dell’appoderamento fu affidato all’Opera nazionale combattenti, proprio per rimarcare il vincolo profondo tra il fascismo ed il combattentismo, che ritrovava nella nuova trincea pontina ulteriori motivi simbolici e reali di unione.
La realizzazione delle città nuove, l’assegnazione della terra ai contadini ex-combattenti divennero elementi affermativi di un consenso che si traduceva anche con la creazione di nuovi miti, uno dei quali era senz’altro quello dell’Italiano nuovo, esaltato e riscattato da questa moderna epopea del lavoro. Ed è proprio sul tema della politica sociale, vagheggiata dal socialismo utopistico e attuata dal regime nel pontino, che si inserisce il felice connubio tra Cambellotti e l’Opera combattenti, che del fascismo incarnava proprio l’anima socialisteggiante.
La collaborazione continuativa tra l’artista romano e l’Opera combattenti inizia nell’agosto del 1935 con la realizzazione della prima copertina del ciclo «La conquista della terra» I dissodatori, qualche mese dopo la rimozione di Valentino Orsolini Cencelli da commissario dell’ente e la successiva nomina a presidente dell’Onc di Araldo di Crollalanza (7).
L’incontro tra l’arte di Cambellotti e Araldo di Crollalanza era avvenuto il 2 ottobre del 1932 quando il ministro aveva presenziato la cerimonia d’inaugurazione del Palazzo dell’acquedotto pugliese a Bari. Di Crollalanza era rimasto fortemente suggestionato dal lavoro di Cambellotti dopo averne ammirato la perfezione decorativa negli incastri dei pavimenti, nell’intarsio dei mobili, nella modellazione dei fregi e nella stesura delle tempere.
L’armonizzazione perfetta tra arte ed architettura vede Cambellotti protagonista, nel 1934, anche nella realizzazione delle tempere della prefettura di Littoria che rappresentano il naturale riferimento-antefatto al ciclo «La conquista della terra» (8).
La parte centrale, ampia e scenografica, raffigura l’arrivo del miles agricola armato di vanga che incarna la nuova civiltà nata dalla bonifica integrale; in primo piano il fascio littorio nella sua foggia archetipica etrusco-romana piantato nella terra a eternare politicamente l’agognata conquista, con i contadinisoldati ricurvi nell’atto di afferrare la zolla, palesati da un movimento di masse in rilievo plastico come in una rappresentazione classica (9). Sullo sfondo in primo piano la nuova città di Littoria, contornata da un reticolo di strade e poderi, perfettamente scanditi dal rigore geometrico delle migliare, anima la pianura redenta. L’Agro bonificato è circoscritto dal profilo crestato del Circeo e dai lineamenti sinuosi del Vulcano laziale.
I pannelli laterali illustrano e ricordano le situazioni antecedenti l’opera di bonifica che il nuovo ordine spazza via: da un lato il «pantano secolare» con il groviglio di alberi e di arbusti, ostacoli naturali che impedivano il defluire delle acque - riparo naturale della malaria - ma anche disperato rifugio di carbonai e avventizi; dall’altro gli abitatori abituali della palude, il buttero, le bufale, i cavalli bradi; presenze fuggitive, divenute «fantasmi» perché legate oramai alla desolazione e alla miseria del passato.
L’arrivo dei coloni ex-combattenti annuncia la redenzione dell’Agro pontino sotto l’egida del fascio littorio, l’ordine nuovo, assertore di una delle massime aspirazioni dell’uomo-rurale: la conquista della terra.
Questo ciclo narrativo è uno dei più elevati esempi di mistica totalitaria nell’ambito dell’intera vicenda muralistica italiana, quando il sentimento contemplativo diviene verità assoluta, come l’evocazione rapida di un sogno, di un prodigio. L’alfabeto simbolico cambellottiano esalta la creazione di una nuova mitografia rurale individuata nella saga combattentistica del pionierismo, nella sacralità eroica del lavoro che annuncia il progresso, nella essenziale scansione temporale: guerra-rivoluzione-ricostruzione (10).
Il ciclo eroico «La conquista della terra» rappresenta l’espressione complementare, naturalmente correlata e successiva, alle tempere della Prefettura di Littoria. Entrambi hanno in comune la stessa funzione sociale dell’arte, quella didascalico-pedagogica, divulgativa, celebrativa. Entrambi parlano un linguaggio popolare di forte impatto mitico e simbolico.
Cambellotti realizza le tavole per la rassegna dell’Opera forte dell’esperienza che la sua attività di raffinato decoratore di libri gli ha insegnato: la possibilità di dialogare con l’immaginario popolare attraverso un mezzo di ampia diffusione della cultura come quello rappresentato da una rivista mensile di grande diffusione e di elevato valore grafico e contenutistico (11). L’essenzialità della costruzione e l’immediatezza del messaggio, «traduzione grafica di un concetto plastico» secondo il pensiero dell’artista (12), consentono di esprimere con la sinteticità dello stile insegnamenti che rappresentano i valori, le conquiste, i miti della nuova civiltà contadina, divenuti certezze: la famiglia patriarcale, la prosperità della terra, il lavoro nei campi, la vittoria del grano. Ma soprattutto, in linea con le teorizzazioni novecentiste, Cambellotti ricolloca l’uomo al centro della scena, quale artefice principale della costruzione-fondazione della modernità.
All’interno di questa serie possono essere ravvisate due fasi distinte, diversificate tra di loro anche nel linguaggio grafico-espressivo, nelle quali l’artista sembra separare in due momenti storici la vicenda pontina: una mitologicofondativa, l’altra didascalico-contemplativa.
La prima fase fa riferimento a 26 tavole, che riguardano il periodo agosto 1935-gennaio 1938, realizzate con una tecnica cosiddetta al tratto, molto affine alla xilografia, a più colori piatti e brillanti, di forte impatto suggestivo, per la cui realizzazione Cambellotti utilizza clichè tipografici invece delle matrici lignee scavate a mano. Questo procedimento gli garantiva comunque «una forma di grafica più atta alla diffusione perché moltiplicabile» ed effetti di sintesi più affini alla sua espressività essenziale, consentendo al contempo una qualità finale di innegabile resa pittorica.
La bonifica integrale in quegli anni esprime al massimo la propria valenza costruttiva e Cambellotti con il suo lavoro contribuisce a consegnarla alla storia, edificandone il mito attraverso la fusione dell’arte con la letteratura mito logica, sopravanzando così la cronaca e la pubblicistica. Nello specifico l’artista non si limita alla pedissequa e apologetica descrizione di un avvenimento, come era in voga per tantissime altre testate del periodo, ma edifica la mitografia dell’impresa attraverso la rappresentazione della realtà vissuta, divenuta racconto fondante. Una delle chiavi di interpretazione è compresa proprio nella velocità in cui si alternano gli eventi nel pontino: in uno spazio temporale davvero ridotto si passa da una condizione di primitività a condizioni di vita civile; come in una leggenda eroica «gli uomini della vanga e del solco» riscattano la terra dall’acquitrino malarico e ostile, «dal pantano secolare per forza magica» nascono città nuove, viene distribuita la terra a nuovi agricoltori «giovani d’arte e di virtù». Questo è il «miracolo» evocato dall’artista, che colloca il pioniere-fondatore al centro della narrazione, esaltandone le qualità umane e le capacità costruttive. Il solco temporale tra la modernità e il passato, con la creazione del mito, diventa ancora più profondo; il fondamento è solo nella realizzazione dell’impresa. Il centro della scena appartiene oramai solo al presente: il tempo del mito, con le sue conquiste, le sue certezze, i suoi valori fondanti; il passato è spazzato via, non compare più nemmeno come ricordo lontano.
La fondazione mitologica, secondo la narrazione cambellottiana, riconduce il mito al primordio, mentre la trasposizione della realtà a mito consacra la nascita di un nuovo mitologema delle origini, di cui le città pontine rappresentano uno degli aspetti leggendari del racconto. Il luogo dove accade il «miracolo » è poco più a sud di Roma, a pochi chilometri dalla capitale, in quella campagna della quale il nostro ha «inteso la malìa intensa formata di sogni primordiali, di tristezza e d’abbandono». Accanto al nuovo ordine nasce una nuova civiltà, fondata sul riscatto di quella terra promessa ai combattenti fin dal 1917.
La relazione con le leggende romane, realizzate quasi tutte proprio tra il 1926 ed il 1940, diventa naturale; si tratta di narrare l’inizio di una nuova civiltà che nasce dalla idealizzazione della città eterna, prefigurandone la connessione delle origini.
E’ proprio nelle prime 26 tavole xilografiche che appaiono maggiormente ricorrenti le strette relazioni simboliche con i miti della fondazione di Roma consacrati nelle 35 xilografie delle Romanae fabulae sostanzialmente coeve alla leggenda pontina.
Forti analogie sono eloquenti in tavole come I costruttori (settembre 1935) - che incarnano le gesta del Vallo di fuoco (1944) - dove il fulcro della scena è incentrato nell’atto della fondazione mitologica di un edificio quadrangolare di pietra (13); i militi-costruttori sono i reduci della grande guerra, antichi romani della contemporaneità, riconoscibili dall’inconfondibile elmetto.
Il Marte guerriero della xilo Mamors (1929), riposta la lancia e imbracciato l’aratro, diventa il Marte agrario della tavola Nel solco di Roma (aprile 1937); Cambellotti lo raffigura mentre traccia il perimetro di fondazione di Aprilia, quarta città pontina, la cui nascita è stabilita proprio in corrispondenza della nascita di Roma, nel mese augurale di aprile. La correlazione tra le due città è rimarcata dall’iscrizione sul clipeo del dio guerriero e agreste, «generatore di Roma», e diventa ancora più marcata se si pensa alla consuetudine del ver sacrum, quando il «dio della primavera» guidava i giovani che emigravano per fondare nuove città e trovare nuovi insediamenti. Sullo sfondo la scena è dominata dal profilo di un albero fiorito che simboleggia i doni della campagna rigenerata.
Il fuoco sacro (febbraio 1936) e Il ceppo (dicembre 1936) rimandano alla xilografia Vesta (1930), sia per la presenza centrale del simbolo solare per eccellenza che domina la scena con i suoi toni di sangue, come pure per la tutela del nuovo focolare domestico, quindi della famiglia colonica, che incarna la funzione di una moderna vestale nel garantire la continuità della nuova civiltà contadina. Inoltre, la figura della massaia rurale che accudisce il focolare domestico nella tavola Il ceppo, dal punto di vista iconografico è speculare alla dea Vesta delle Leggende romane.
La semina (novembre 1936), relazionabile alle due xilo delle Romanae fabulae I Semoni (1950 e 1952), celebra l’austerità rituale della seminagione come in una cerimonia augurale al cospetto delle divinità agresti, mentre Il mannello (luglio 1937) ci restituisce la figura di Anna Perenna (1926) sotto le vesti di una donna rurale che reca sulla testa il grano rigoglioso nato dalle terre bonificate, con la stessa solennità della dea romana.
In tavole come La quercia rinverdita (gennaio 1936), Reficere (giugno 1936), Generazioni (dicembre 1936), la presenza simbolica dell’albero sacro, l’axis mundi venerato nell’antichità quale espressione stessa della vita che si rigenera, riconnette il ciclo eroico proprio alla sua possibilità della persistenza nel tempo, spesso abbinato ad un altro simbolo sacro: il fascio littorio.
L’immagine più ricorrente e per questo motivo maggiormente elevata a mito fondante è quella del soldato-contadino (miles agricola); in questo modo alla Grande guerra viene riconosciuto il ruolo di rivoluzione sociale, generatrice della nuova civiltà. Ma anche altri temi cari al regime come la battaglia del grano e la conquista dell’impero, interpretati con la consueta arcaica semplificazione formale, non scadono mai a icone rappresentative della propaganda.
Osservato con l’attenzione che merita, il ciclo ripropone un po’ tutta la maniera espressiva cambellottiana e permette raffronti e rimandi con opere dell’artista, precedenti o coeve, che esaltano quel vigore inventivo necessario all’identificazione del suo stile.
Dal febbraio del 1938, fino al dicembre del 1939, Cambellotti modifica il proprio registro espressivo, realizzando le tavole per la rassegna per mezzo del più tradizionale bozzetto preparatorio con trapassi chiaroscurali, tradotto in stampa con clichè di zinco retinati; tecnica questa molto più assimilabile al cartellone piuttosto che alla xilografia. Uno dei motivi principali di questo repentino cambiamento stilistico, peraltro facilmente individuabile anche dalla modificazione del lettering della rivista, può essere compreso nel più veloce tempo di realizzazione delle tavole permesso da una simile tecnica. In questo modo, da un punto di vista espressivo, il racconto assume un aspetto più pacato, rassicurante e meno incisivo.
Deve essere anche considerato che nel 1938 con la bonificazione del quinto comprensorio dell’Agro romano e la fondazione di Pomezia la vicenda pontina è praticamente conclusa; terminata la iniziale fase eroica della fondazione, Cambellotti durante tutto il
Si tratta in sostanza di narrare il tema bucolico-agreste, esaltando le qualità della campagna, l’importanza del ritorno alla terra stabilmente, la restituzione del territorio alla sua naturale vocazione agricola.
A parte la rappresentazione del duce trebbiatore del luglio 1938, icona anche un po’ abusata dalla propaganda del tempo, la presenza più frequente nelle figurazioni delle tavole è proprio quella dell’albero sacro: pesco, mandorlo, quercia, fico o ulivo; il significato connesso è quello della forza, della durata, dell’eternità.
Alle ultime 12 copertine realizzate nel 1939 Cambellotti affida il racconto consolatorio e didascalico delle principali attività agricole praticate nei diversi mesi dell’anno (potatura, fienagione, bruciatura delle stoppie, pastorizia). Uniche eccezioni riguardano gli accenni ad avvenimenti che esulano dal tema bucolico come Fervore di opere nel Tavoliere (febbraio 1939) e Collaborazione Italoalbanese (maggio 1939), con le quali l’artista affronta i nuovi compiti affidati all’Opera combattenti, relativamente alla bonifica integrale della Capitanata e dell’Albania.
Con l’ultima tavola Ceppo, (dicembre 1939) a chiusura della silloge, l’artista ripropone il simbolismo del fuoco sacro; il messaggio emblematico e confortante consegna alle generazioni che verranno il compito di salvaguardare le conquiste raggiunte.
A compendio di questo ciclo eroico e come naturale connessione-prosecuzione dello stesso vanno inseriti alcuni lavori complementari eseguiti in quegli anni da Cambellotti. Il riferimento riguarda soprattutto l’illustrazione per la copertina del volume L’Agro pontino al XVIII dicembre a. XVI E. F. (1935, Quaderno annuale edito dall’Onc) nella quale l’artista ripropone la figura del pionere-bonificatore che si staglia sulla piana redenta con la vanga e l’elemetto da combattente della Grande guerra, idealizzato come monumento perenne della colossale impresa (14). Come pure appartengono idealmente a questa narrazione grafica le due copertine realizzate nel 1938-
Nel segno della coerenza stilistica e della fondazione del mito le historiae narrate da Cambellotti nel corso degli anni trenta contibuiscono a collocarlo fra i massimi rappresentanti del Novecento italiano, tra quegli artisti che hanno caratterizzato con il proprio stile lo stile di un’epoca.
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