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La Palude

Le rane e i ranocchiai

 

Luigi Zaccheo

 

Nel centro storico di Sezze l’attuale largo Bruno Buozzi era da tutti conosciuto con il nome La piazza gli granunchi, perché in tale piazzetta stazionavano le donne che per mestiere vendevano le rane. Circa 10 famiglie traevano da vivere proprio dalla vendita al pubblico delle rane. Le granunchiare di buon mattino mostravano ai clienti, in un apposito recipiente di terracotta svasato e all’interno smaltato (i sinnilóno), i ranocchi spellati e conservati nell’acqua. Se l’acqua era rossiccia significava che i ranocchi in vendita erano freschi, cioè pescati appena qualche ora prima, se invece era rosso-scura significava che i ranocchi non erano di giornata. Ogni donna riusciva a vendere non più di 8 chilogrammi al giorno. A volte la granunchi ara con il sinnilóno in testa e la statera in braccio girava nei vicoli del paese per terminare la vendita (spacciare). L’acquisto da parte delle singole famiglie era di una libbra, al massimo due libbre di ranocchi (una libbra corrisponde a tre etti e trenta grammi circa), che dopo la pesa venivano messi o nella spessa carta della pasta o sopra grossi pampini di uva. I ranocchi venivano cucinati in brodo soprattutto per le persone anziane, per i malati e per i bambini. Una vera leccornia erano i ranocchi impastati e cotti al forno con il pomodoro fresco, oppure cotti al forno ma conditi con l’aceto. Altra specialità era la zuppetta di pane con brodo di ranocchi e alcune verdure di stagione. Per secoli i ranocchi sono stati la carne della popolazione lepina e pontina: essi erano apprezzati in cucina sia dai ricchi che dai poveri. Del resto la presenza di centinaia di canali (le fosselle) nella Pianura Pontina rendeva relativamente facile la pesca dei ranocchi.

I granunchiari (ranocchiai) di professione al sorgere del sole già si trovavano all’opera lungo i canali con la loro possente vara, ovvero una lunga asta alla cui estremità era posto un elemento circolare su cui era attaccata una rete profonda circa 150 cm. (simile ad un retino di grandi dimensioni). Il granunchiaro, costeggiando il ciglio del canale, batteva forte i piedi per terra, mentre la vara era immersa nell’acqua. I ranocchi, impauriti dal rumore dei piedi, dai loro ripari saltavano verso il centro del canale, finendo così all’interno della vara. Il pescatore alzava in alto la vara catturando così gli incauti anfibi. Successivamente questi ad uno ad uno erano messi in un’apposita nassa di vimini. Pescato il giusto quantitativo di ranocchi, il ranocchiaio tornava a piedi a casa, dove la moglie, le figlie e lui stesso procedevano, prima a decapitare e successivamente a spellare i ranocchi. Una volta pronti la granunchiara portava solerte la sua merce al mercato per la vendita. Se la pesca era stata particolarmente abbondante, i ranocchi in eccedenza venivano conservati vivi per il giorno successivo. Quello del ranocchiaio era un vero e proprio mestiere, con i proventi del quale vivevano famiglie per giunta numerose. E’ rimasta celebre una donna, che, per sfortunate vicende familiari, fu costretta a svolgere il mestiere di granunchiara, recandosi – al pari degli uomini – tutti i giorni a pesca con la sua robusta vara. 

Si riporta una bellissima poesia di Antonio Campoli, apprezzato poeta setino, proprio sulla figura della donna venditrice di rane: 

 

«Sdraiata a nu scanniglio1 basso basso

 faccia fronte a nu bbeglio sinnilono2,

 uinneva gli granunchi da Quatrasso3

 cu na camicia senza nu buttono.

 

 Quando teneva mmagni la statera4

 i petto lazzo lazzo5 si spirchiava6:

 la granunchiara era bella, era:

 cu nu minuto subbito spacciava7.

 

 Lu seppe gli marito e ‘na iurnata

 si prisintave cu la siticciola

 tocca a Quatrasso8 tutt’abbuttunata.

 

 Tre ore stette cu gli sinilono,

 cu gli curpetto e senza camiciola:

‘n ci s’accustave manco nu sfuzzono9». 

 

(1) Piccola sedia di legno, più bassa delle altre.

(2) Grosso recipiente di terracotta, smaltato all’interno.

(3) E’ il più grande palazzo esistente nel centro storico di Sezze.

(4) Stadera, piccola bilancia a bracci disuguali.

(5) Bianco, bianchissimo.

(6) Risplendeva per luminosità.

(7) Terminava di vendere la merce, tutte le rane.

(8) Proprio attaccata a palazzo Quatrasso.

(9) Cittadino di Sezze che non lavorava nei campi (artigiano, impiegato, ecc.). 

 

Nell’Antiquarium Comunale di Sezze è conservata una bellissima lucerna dell’età romana sul cui beccuccio è realizzata a bassorilievo la figura di una rana accovacciata, importante testimonianza della peculiarità gastronomica pontina fin dall’antichità. E’ importare altresì ricordare che nei primi decenni del cristianesimo il «ranocchio» era uno dei tanti simboli dei cristiani, in quanto la sua alta prolificità simboleggiava la facilità di moltiplicarsi dei cristiani stessi.   

 

 

I bovari

 

Il mestiere di bovaro (10) era sicuramente tra i più ambiti e tra i più importanti fino agli anni Cinquanta del secolo appena trascorso. Un proprietario di un modesto fondo o come amava definirsi - un campère - , per sopravvivere doveva imparentarsi con un bovaro o necessariamente legarsi a lui come compare. L’aratura dei terreni, in attesa della semina del grano o del granturco, veniva svolta solo e soltanto dai bovari con il loro grosso e robusto aratro di legno trainato da una coppia (una vetta) di buoi. La quantità di terreno che una coppia di buoi poteva arare nell’arco di una giornata arrivava appena ad una misura (circa 3.600 mq.), pertanto essendo numerosi i terreni da arare e limitati i tempi dell’aratura, incalzando l’inizio della semina, il piccolo proprietario, se non riusciva a far arare il proprio terreno in tempo correva il serio rischio di saltare la semina e quindi il successivo raccolto. I bovari, pertanto, sia quelli in proprio, sia quelli che lavoravano per conto dei grossi proprietari terrieri, venivano pagati per il loro lavoro più del dovuto; ma soprattutto erano rispettati, blanditi all’osteria e tenuti in gran considerazione da tutti.

Durante la Prima guerra mondiale, in mancanza di uomini validi per i campi in quanto impegnati al fronte, i giovanissimi garzoni di 16-17 anni, pur ancora non provetti bovari, pretendevano per il loro lavoro sempre nuovi aumenti di salario. Mio padre mi raccontava che non aveva mai avuto problemi per l’aratura del suo piccolo fondo, perché legato come compare di battesimo (compare San Giovanni) ad un bovaro, al quale, oltre a pagare il lavoro dovuto, durante l’intero anno forniva gratuitamente il vino. Insomma non dobbiamo stupirci se le ragazze da marito sceglievano soprattutto i giovani bovari, anteponendoli agli artigiani e ai contadini.

La situazione di privilegio incominciò a cambiare negli anni Trenta del secolo appena trascorso, quando entrò in uso la perticara di ferro ovvero un particolare tipo di aratro che tagliava il terreno verticalmente con una larga lama leggermente curva (comèra), ottima per l’aratura del terreno in attesa della semina. Per trainare la perticara era sufficiente la forza di un robusto mulo. Se occorreva fare un solco più profondo (scassare il terreno), si facevano lavorare in coppia due muli, che trascinavano una grossa perticara di ferro davanti alla cui lama era una piccola ruota. I contadini in pochi anni, usando il mulo, sia per l’aratura ma anche per il trasporto, non avevano più bisogno dell’apporto dei bovari, che così videro pian piano diminuire le loro opportunità di lavoro. Il massiccio uso del trattore nel secondo dopoguerra (usato anche prima, ma in modo molto ridotto) seppellì in pochi anni il mestiere del bovaro.

Due robusti buoi, sempre ben accuditi ed alimentati, trainavano un grosso aratro di legno fornito di una lunga trave del diametro di almeno 8- 10 cm. (tale trave era chiamata la ura), che era direttamente attaccata al solido giogo, tramite due robusti anelli di pelle di bufalo che avevano la funzione di rendere elastici i movimenti di collegamento tra la trave e il giogo (i due anelli erano chiamati la concia). Il giogo posava sulla base del collo delle due bestie. Alla parte opposta della trave-ura era sistemato il vomere, che era potenziato da una fodera di ferro (i congéro) terminante a punta. Tale vomere, trainato dai buoi, arava il terreno rompendolo orizzontalmente e realizzando un vero e proprio «scasso». Il bovaro indossava abiti comodi e leggeri e soprattutto ai piedi portava le tipiche calzature della zona le ciocie, ottime per chi doveva camminare tutto il giorno e per più giorni. Inoltre egli aveva sempre con sé, durante l’aratura una lunga asta a cui ad una estremità era conficcato un chiodo per pungolare i buoi in particolari momenti del lavoro o quando battevano la fiacca. All’altra estremità dell’asta era fissata una palélla, una piccola pala di ferro (staratóra) necessaria per pulire il vomere dalle erbacce e dal fango che vi restavano attaccati. Il vomere doveva essere sempre pulito per ottenere una buona aratura.

Quasi sempre i bovari fissavano una loro dimora temporanea in un luogo scelto in funzione dei terreni da lavorare, sempre in aperta campagna, dove potevano disporre di una capanna per dormire, di un riparo per i buoi, di un deposito di foraggio e di abbondante acqua per l’abbeveraggio.

Nell’arco di pochi decenni è sparito il mestiere del bovaro: non si trovano più i buoi addomesticati ed addestrati e i robusti gioghi di legno ormai fanno bella mostra esposti o nei musei o peggio nei ristoranti tipici. I grandi barrocci dalle imponenti ruote, trainati da buoi o da bufali per il trasporto di materiali vari, sono solo un simpatico ricordo di un recente passato immortalati nei quadri dei XXV Pittori della Campagna Romana.  

 

 

 I butteri

 

Un antico proverbio sezzese dice: «Se 'u nu figlio tristo, faglio uttero o seminaristo» (se vuoi avere un figlio cattivo-irrispettoso fallo diventare buttero o seminarista). Tale proverbio trova la sua giustificazione sia nell'atteggiamento anticlericale del popolino sia nella constatazione che i giovani butteri, che vivevano allo stato brado nella pianura Pontina, erano veramente un «flagello di Dio». Il sabato sera, quando i butteri tornavano al paese per ripulirsi, per rifocillarsi e per prendere le provviste per la settimana successiva, si creava un vero e proprio panico nelle bettole e nei luoghi di incontro. Se proprio non c'era nulla da fare, allora i butteri si divertivano a rompere tutte le lampadine dei lampioni posti lungo la strada. Insomma i butteri si trovavano più a loro agio vivendo all'aria aperta nella palude che non in città.

Il compianto Sandrino Di Trapano mi raccontava che da giovane buttero spesso dormiva-riposava stando in groppa ad una cavalla mansueta. Per comodità la cavalcava a rovescio in modo che la parte superiore del suo corpo potesse poggiare sul dorso posteriore dell'animale. Si copriva con una coperta per ripararsi dalla abbondante rugiada (la guazza), mentre il calore del corpo del cavallo lo riscaldava e gli favoriva il sonno. In questo modo, mentre il quadrupede pascolava, riusciva a riposare tre-quattro ore per notte.

Nel 1961, mentre mi trovavo alla Fontana delle Acque Vive nel campo Setino per prendere l'acqua, ebbi modo di parlare amichevolmente con un vecchio buttero - di cui purtroppo non ricordo il nome - il quale mi raccontò un episodio della sua giovinezza. Faceva un caldo tremendo, gli uomini e gli animali (cavalli e mucche) riposavano presso la Fontana delle Acque Vive all'ombra dei pochi alberi. Era presente anche una cavallina - ancora in dommine - (indomito, ma più probabile vergine, ancora nel Signore) - come diceva il buttero, cioè un animale ancora non domato, anzi neppure sfiorato dall'uomo. Il proprietario della cavallina promise al nostro buttero due fiaschi di vino se avesse provveduto a domarla. Questi accettò subito la proposta, si procurò un vinchio (un sottile e lungo ramoscello di vimini simile al frustino) e come un fulmine saltò sul dorso della cavallina allo sdosso, cioè a pelo nudo senza sella e senza briglia. La cavallina si alzò immediatamente sulle zampe facendo acrobazie terribili, ma il nostro buttero riuscì a non cadere a terra, con il vinchio (frustino) affilò (indirizzò) l'animale con una corsa sfrenata lungo una strada sterrata. Dopo circa un'ora tornò indietro a cavallo dell'animale, questi però era letteralmente sfinito e ricoperto di sudore. Il padrone nel vedere la sua cavallina ridotta in quelle pessime condizioni, voleva addirittura «dare di coltello al buttero», ma poi fu costretto a dargli almeno un fiasco di vino.

I nostri butteri erano tutti straordinari cavallerizzi, conoscevano a fondo gli animali, sapevano dominarli, ma anche governarli nel migliore dei modi. Non dobbiamo meravigliarci più di tanto se nel 1890 in occasione dell’arrivo del circo di Buffalo Bill a Roma proprio un buttero pontino sconfisse nella gara della doma dei cavalli i pur bravi americani. Ma vediamo come sono andati realmente i fatti. Nella gara della doma dei puledri il buttero Augusto Imperiali al servizio della famiglia Caetani fu decisamente più bravo degli americani e vinse meritatamente la gara. Nella successiva sfida nel lancio delle asce con il manico corto contro un bersaglio prestabilito, i butteri maremmani superarono nettamente i pur bravi indiani di Toro Seduto. Buffalo Bill e i suoi stravinsero contro i nostri butteri nell'uso della carabina e delle pistole. Il fatto curioso è che la memoria di questa epica sfida tra butteri e cow-boys si è conservata abbastanza bene nella vasta area della Maremma, mentre si è persa nell'area pontina.

Il Sindaco di Cisterna e i cisternesi invece di urlare al vento contro il presentatore Panariello e la Rai dovrebbero fare almeno una riflessione sul perché un così simpatico evento di gloria popolare si sia lascialo cadere nell'oblio. Se gli orgogliosi cisternesi avessero realizzato un monumento in onore di Augusto Imperiali, se avessero speso energie e danaro per coltivare la memoria dei butteri pontini probabilmente il bravo conduttore televisivo non sarebbe caduto nell'errore di attribuire la vittoria sugli americani nella doma ad un buttero maremmano. A conferma di quanto vado dicendo nel 1971 la Casa Editrice Mursia ha pubblicalo un libro Viva i butteri! scritto da Antonio Perrini, maremmano di Tarquinia, che racconta in modo epico lo scontro tra cow-boys e butteri. Non mi risulta che scrittori pontini abbiano trattato in modo approfondito la celebre sfida nei loro libri o nei giornali, eppure nell'Archivio Storico Capitolino si trovano numerosi documenti che ne parlano diffusamente. Nel mese di ottobre del 1960 all'età di 90 anni muore Augusto Imperiali a Cisterna di Latina «in una stanzetta imbiancata a calce accanto alle scuderie di una tenuta non lontana da Roma. Fino all'ultimo poteva udire lo scalpitio dei cavalli che ogni sera passavano davanti alla sua finestra per andare all'abbeverata».

Si riporta il brano della doma del cavallo selvaggio durante la sfida butteri- americani, tratto dal libro Viva i butteri! di Antonio Perrini: «Ma, a questo punto avvenne l'incredibile: Augustarello, dopo essersi stretto il sottogola per non perdere il cappello, fece un balzo acrobatico dall'alto della staccionata e cadde esattamente in sella al selvaggio animale. Sentendosi all'improvviso quel peso sulla g roppa, il puledro si inarcò violentemente, fece enormi salti del montone, si impennò e, tra nuove urla della folla, tornò a gettarsi con il fianco a terra. Ma Augusto riuscì a sollevare a tempo la gamba con una contorsione da giocoliere e si aggrappò alla criniera dell'animale incitandolo a rialzarsi. Quando il puledro si risollevò Augusto era ancora ben saldo in arcione, anzi, alzava e abbassava con violenza le braccia quasi volesse aumentare la forza degli scossoni che il puledro gli imprimeva. Trascorsero così almeno quattro minuti tra un uragano di grida e di applausi. Il cavallo cominciava a manifestare segni di stanchezza. Allora Augusto volle compiere un ultimo gesto di spavalderia: si piegò all'indietro e, con l'indice e il pollice, prese a pizzicare la pelle delicata del cavallo dove le zampe posteriori si riuniscono al ventre. Questi pizzichi in punti così sensibili fecero nitrire il puledro che, raccolte le ultime forze, cercò ancora di disarcionare il buttero. La folla, ormai era tutta in piedi e applaudiva freneticamente mentre Augusto rimaneva imperturbabile in sella. Alla fine, il terribile puledro nero abbassò mestamento il muso verso terra. Era domato, così ben domato che il buttero gli fece compiere al passo un giro completo della rotonda. Poi saltò a terra, accarezzò il muso dell'animale e guardandosi intorno con aria di sfida gridò: ce ne sono altri da domare?».

Fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo appena trascorso, in tutte le feste religiose che si svolgevano nei centri lepini, la corsa dei cavalli, meglio conosciuta con il nome di carriera (si tratta di un evidente spagnolismo) era sempre presente. Migliaia di persone si appassionavano e tifavano per il fantino-buttero che riusciva a vincere la corsa, tra urla ed imprecazioni indescrivibili. All’inizio del secolo scorso quando ancora gli sport di massa (calcio, ciclismo, pugilato, ecc.) non avevano una grande presa sul popolo, era la sola corsa dei cavalli a riscaldare gli animi e i sentimenti della gente.

Per la festa del patrono di Sezze, San Lidano, i festeggiamenti erano sempre gli stessi: la solenne processione religiosa, la tombola, «la carriera», le girandole e i fuochi d’artificio. La sera della festa era poi la banda musicale che deliziava i cittadini con il suono delle marcette e delle arie più note delle opere di Verdi, Rossini, Leoncavallo, ecc. Nella memoria popolare è rimasto leggendario il buttero Fagiolino, che vinceva con spavalderia tutte le carriere, sia a Sezze che nei centri vicini. I racconti popolari (non abbiamo prove scritte documentate) ci dicono che Fagiolino faceva parte di quel ristretto gruppo di butteri che batté a Roma Buffalo Bill nella celebre sfida della doma dei cavalli. E’ un vero peccato che le istituzioni locali non abbiano avuto la sensibilità di conservare la memoria delle vicende di un recente passato, anzi hanno contribuito a cancellare tutto il mondo dei butteri, perché ritenuto primitivo e non nobile. Perché allora lamentarsi se i giovani e i meno giovani ignorano completamente i butteri? Eppure in quasi tutti i centri antichi dei Lepini le persone anziane per indicare i giovani usano il termine uttero ( buttero) e per indicare i ragazzi più piccoli uttaréglio (buttarello). Infatti fino agli anni Trenta del secolo appena trascorso la quasi totalità dei ragazzi, appena compiuto il decimo o undicesimo anno di età, veniva inviato in pianura ad apprendere il duro mestiere del buttero, governando i cavalli e le mucche.

I giovani buttarelli dovevano sottostare alle regole e spesso alle prepotenze dei butteri più grandi, che li costringevano ad una serie di servizi (come andare a prendere l’acqua fresca alla sorgente, fare varie commissioni, ubbidire celermente ai loro ordini, ecc.), spesso umilianti. Il povero buttarello  però aveva le sue piccole vendette: sputare dentro la copella dell’acqua fresca, o peggio metterci dentro un po’ della sua urina.

La vita nella pianura pontina era molto dura per tutti e in modo particolare per i più giovani. Dopo qualche anno di apprendistato il buttarello era in grado di muoversi agevolmente con il suo cavallo in tutta l’area tra acquitrini, boschi, caldo soffocante e piogge persistenti. I butteri erano dei profondi conoscitori dell’ambiente e degli animali che custodivano e allevavano. E’ un vero peccato aver perduto in pochi decenni la memoria di un mondo primitivo duro quando si vuole, ma affascinante e pieno di umanità. I cow-boys americani ancora vivono di luce propria nei numerosi films western mentre i nostri butteri sono scomparsi nell’indifferenza totale.   

 

 

I bufali  

 

Nell’immaginario collettivo i giganteschi bufali che pascolano tra sterpaglie ed acquitrini sono associati con la Palude Pontina. Il suggestivo dipinto di Giulio Aristide Sartorio, che in modo realistico rappresenta una grande mandria di bufali a Foro Appio nel momento di spurgare le limacciose acque del fiume Linea Pia, colpisce ancora la fantasia di chi lo guarda. I bufali e la Pianura Pontina, anche a distanza di molti anni e di grandi radicali sconvolgimenti ambientali, rappresentano un connubio ancora valido. Si pensava che, dopo la bonifica idraulica della Palude Pontina degli anni Trenta del secolo appena trascorso, i bufali sarebbero scomparsi dalla nostra visuale, al contrario essi sono aumentati di numero ed è possibile incontrarli – sornioni ed imponenti – nei territori di Sezze, di Priverno, di Pontinia, di Terracina e in altre zone della Pianura Pontina. Le industrie, grandi, medie e piccole, che lavorano il latte di bufala, producendo le rinomate mozzarelle o le ricercate ovoline sono sempre in aumento e l’allevamento dei bufali si dimostra sempre più produttivo e competitivo. Il bufalo è diventato parte integrante del paesaggio dell’area pontina, tanto è bene inserito in essa. Occorre ringraziare i nostri nonni, che, pur tra mille sacrifici, sono riusciti a continuare l’allevamento dei bufali, migliorandone la qualità e la produttività. Certo è ormai molto lontano il tempo in cui i bufali erano utilizzati sia per ricavarne il latte (come oggi) sia per alcuni lavori agricoli particolarmente pesanti sia per lo spurgo dei canali e dei fiumi.

I bufali sono animali che hanno minore bisogno di cure rispetto ai buoi, infatti ad essi è sufficiente uno spazio all’aperto, badando però che durante l’estate non manchino nel terreno delle pozzanghere piene di acqua, affinché possano rinfrescarsi spesso e che nel periodo invernale abbiano un riparo.

Pertanto nel luogo dove si allevavano i bufali era sempre presente il procoio (11) cioè una costruzione in muratura dove i pastori provvedevano a fare i formaggi sia con il latte bufalino che con quello vaccino. Tale costruzione, generalmente a sezione rettangolare, presentava uno spazio recintato e ben protetto con un muro su cui si aprivano uno o due ingressi, nel quale i bufali o i buoi riposavano durante la notte. I procoi erano presenti in tutto il Basso Lazio e in Campania. Di una certa importanza economica erano i procoi presenti nel territorio dell’attuale Borgo Sabotino (uno di questi è stato di recente ben restaurato e destinato a centro culturale), quello della Ciammarucara, quello della Migliara 46 e mezzo presso il casale Zaccheo e il procoio Bufalareccia vicino Cisterna di Roma.

La mungitura delle bufale ancora oggi deve essere fatta necessariamente a mano e si presenta molto faticosa, sia perché l’animale si muove continuamente sia perché occorre prima riscaldare per bene i capezzoli affinché il latte venga fuori (12). Le bufale debbono essere munte almeno una volta al giorno, generalmente alla sera, ma attualmente vengono munte la mattina presto e la sera, ricavando una media di circa otto litri al giorno da ciascun animale. I piccoli maschi dei bufali vengono macellati ancora in tenera età (massimo un anno) per ricavarne carne, mentre le femmine vengono trattenute per l’allevamento.  

 

 

Breve storia del bufalo laziale

 

Quasi sicuramente la prima presenza del bufalo laziale avviene nell’anno 595 dopo Cristo, come ci testimonia lo storico longobardo Paolo Diacono. Questi nella sua Historia Longobardorum libro VI, cap. 10, ci dice che: «in questa occasione per la prima volta furono portati in Italia alcuni cavalli selvaggi e alcuni bufali che destarono gran meraviglia in tutto il popolo». Lo storico fa riferimento al mese di gennaio del 595, quando sotto il regno di Agilulfo ci fu ai confini orientali uno dei tanti attacchi degli Unni comandati da un tale Cacano, sicuramente un kan.

Gli antichi Romani non conoscevano affatto il nostro bufalo, avendo dimestichezza solo con il bufalo nero, detto Uro, un animale – questo – selvaggio, mitico, dalla forza eccezionale, che viveva liberamente in Africa in grandi mandrie. I Romani lo catturavano per utilizzarlo nei combattimenti nei circhi, durante gli spettacoli di finte cacce (le venatorie). E’ a tutti noto il romanzo Quo vadis? di Sienkiewicz nel quale la cristiana Licia viene legata su un bufalo nero e liberata dal gigantesco Ursus nel circo. Quindi l’uro non ha niente a che vedere con il pacifico bufalo asiatico, il quale suscitò grande meraviglia negli abitanti della Penisola.

Il nostro bufalo, apprezzato per la sua pazienza, per la sua forza e per la sua resistenza, era indispensabile alle popolazioni barbariche durante le emigrazioni con armi, bagagli e famiglie al seguito. L’unica vera necessità del bufalo è quella di poter stanziare in zone acquitrinose, per potersi rinfrescare spesso e soprattutto liberarsi dagli insetti che stando sul suo dorso lo infastidiscono continuamente. La costa tirrenica laziale, allora ricca di aree paludose e quasi spopolata, si prestava ottimamente alla vita del bufalo asiatico, che infatti vi si stabilì e vi trovò un habitat ideale. L’animale presto venne utilizzato dall’uomo nella campagna per i più svariati usi. (13)

I toponimi nei quali si fa riferimento ai bufali sono numerosi nella Pianura Pontina e nella Campagna Romana, basti ricordare le località: la Bufalara (presso l’odierno centro di Borgo Grappa), il Campo Bufalaro sulla Laurentina, la Bufalotta tra Monte Sacro e la Via Tiburtina . Dall’importante opera di Ercole Metalli Usi e costumi della Campagna Romana, Roma, 1903, sappiamo che nella Palude Pontina esistevano «aziende di sole bufale» governate in modo diverso dalle mandrie di bovini, alle quali badava un minorente che godeva del privilegio della cavalcatura oltre che di una buona paga. Altro personaggio importante per la lavorazione del latte di bufala per ricavarne le mozzarelle era il coratino, aiutato da un bufalaro e da un ragazzino detto il paravanti il quale doveva stare fermo davanti alla bufala durante la mungitura, per tenere l’animale calmo.

I bufali erano inoltre necessari ed indispensabili per procedere alla pulizia dei fiumi e dei canali dall’accumularsi delle vegetazione acquatica, che in pochi mesi diventava così eccessiva ed invadente che se ne rendeva necessaria l’estirpazione almeno due volte l’anno.

Dopo il passaggio dei bufali l’acqua dei canali diventava tanto torbida e fangosa, a causa del rimescolio del limo e della fanghiglia, che i pesci erano costretti a salire in superficie alla disperata ricerca di acqua più pulita. Per i pescatori diventava un gioco da ragazzi catturare un gran quantitativo di pesci utilizzando rudimentali reti. I pesci erano così numerosi che era possibile prenderli servendosi delle sole mani.  

 

 

La caccia

 

Le Paludi Pontine erano il paradiso dei cacciatori, il luogo primitivo nel quale la natura esplodeva in tutta la sua potenza e la selvaggina era presente in grande quantità e altrettanta varietà. La caccia con il fucile e i cani era però praticata dai cittadini borghesi o benestanti, che dalla capitale e dai centri antichi collinari si recavano nella palude per riempire il loro carniere di fauna, per farne poi bella mostra con gli amici e con i parenti.

Ho conosciuto importanti professionisti di Roma (soprattutto medici e avvocati) che nel ricordare le loro esperienze di caccia nelle Paludi Pontine, prima che fosse effettuata la bonifica integrale, avevano il luccichio agli occhi ripensando alla gran quantità di selvaggina che riuscivano a riportare a casa. Uno in particolare affermava che con il treno raggiungeva di buon mattino la stazione ferroviaria di Fossanova e poi, camminando e cacciando, riprendeva il treno a Sezze Romano e qualche volta addirittura a Cisterna di Roma. Durante la lunga camminata, con pause per il riposo in capanne di fortuna, non aveva egli certamente il tempo di annoiarsi.

I malardi (piccole anatre di acqua) a migliaia stazionavano nei numerosi stagni che costellavano la palude. I beccacini erano numerosissimi e pertanto era piuttosto facile cacciarli, così come le beccacce e le pavoncelle. Molto ricercate per l’ottima qualità della carne erano le quaglie e le tortore che arrivavano in primavera dall’Africa. E purtroppo non era raro il caso che i cacciatori le aspettassero sulla duna costiera, quando esse ormai erano stremate per il lungo viaggio. Del resto non esisteva allora nessuna legge venatoria che regolasse i tempi e le modalità della caccia. Ogni cacciatore era libero di agire secondo il suo credo. Gli storni arrivavano a nuvole sulla palude, ma non erano particolarmente cacciati, perché poco interessanti dal punto di vista alimentare. Le folaghe, che vivevano preferibilmente sui laghi, erano abbondanti, ma venivano cacciate poco, perché, nutrendosi esclusivamente di pesce, la loro carne non aveva un buon sapore. Al contrario la caccia alle anatre selvatiche (le oche) era ritenuta interessante, in quanto volatili di grossa taglia, forniti di carne ottima. Le starne e le pernici, pur vivendo e nidificando in collina, per alimentarsi con più facilità, si recavano nella sottostante pianura e quindi erano facilmente preda dei cacciatori.

Altri uccelli presenti in palude stabilmente o occasionalmente erano l’averla (in dialetto locale conosciuta con il nome di crastica), l’upupa, il colombacci o (più grosso di un normale piccione), l’allodola, lo strigliozzo ( il nome dialettale deriva dal suo particolare modo di cinguettare).

Interessante ed accanita era la caccia ai tordi, i quali, pur vivendo stabilmente in collina, durante le giornate fredde erano soliti arrivare in pianura. La sera al loro rientro in collina, i cacciatori li aspettavano al varco stando nascosti nella macchia di Roccagorga e nella contrada Longara. Apprezzata era anche la caccia alla ficaròla, un passeraceo che ingrassa cibandosi prevalentemente di fichi e la cui carne è prelibata.

Le lepri vivevano in abbondanza tra le sterpaglie e le boscaglie senza es s ere disturbate dai pochi uomini che abitavano stabilmente in palude. Alcuni cacciatori amavano dare la caccia ad alcuni animali notturni, in part icolare l’istrice e il tasso. I lestraioli non praticavano affatto la caccia in quanto non interessati ad essa e soprattutto non disponendo del fucile, il celebre lancastro (importato questo dagli Stati Uniti) e di cani addestrati. Spesso però essi mettevano nelle vicinanze delle capanne delle rudimentali trappole per catturare gli uccelli di piccola taglia e le lepri. Il riccio -purtroppo- era molto ricercato e cacciato dai macchiaroli, in quanto la sua carne era apprezzata per preparare il sugo con cui condire la polenta.

A distanza di molti anni dalla bonifica integrale della Palude Pontina ancora sono ricordati i nomi dei cacciatori più accaniti e più bravi che dai centri collinari si recavano in pianura a fare battute di caccia. Al ritorno al paese dopo la caccia mostravano con orgoglio a tutti il loro ricco carniere suscitando ammirazione, ma anche invidia. Purtroppo di tanta varietà di selvaggina è rimasto soltanto il ricordo.  

 

 

I carciofi e i carciofari

 

La coltura del carciofo nel campo inferiore di Sezze e in quelli di Sermoneta e di Priverno non è molto antica, risalendo essa alla seconda metà dell’Ottocento, almeno come funzione trainante per l’economia locale (14). Pertanto è da rigettare la tesi che i carciofi pontini siano un importante eredità dei «prisci romani», come non è da accettare la vanteria degli abitanti di Cerveteri, secondo i quali i loro carciofi sarebbero stati tramandati addirittura dagli Etruschi. E’ nota anche televisivamente la sfida tra i contadini di Sezze e quelli di Cerveteri per la migliore qualità di carciofo prodotto e reclamizzato durante le annuali «Sagre del Carciofo». In realtà il carciofo è una pianta tipicamente mediterranea, sconosciuta sia ai Romani sia agli Etruschi come pianta coltivabile ed utilizzabile dall’uomo: essa è stata introdotta e sviluppata soprattutto dagli Arabi, i quali la chiamano kharshùf, da cui deriva il nome italiano carciofo.

La coltura del carciofo nella Pianura Pontina ha raggiunto in pochi decenni una meritata fama grazie alla bontà e alla qualità del carciofo prodotti, radicandosi nella tradizione agricola locale. L’utilizzazione dei capolini della Cynara cardunculus era ed è molto diffusa nei terreni sottostanti Sezze, Sermoneta e Priverno e in altre zone del Lazio, ma anche nella Puglia, nella Sardegna, in Campania e in Sicilia. La resa per ettaro dei carciofi pontini è molto sostenuta e sfiora i 150 quintali per ettaro, mentre l’intera produzione della provincia di Latina si aggira intorno ai 140.000 quintali. Nei fertili terreni della Pianura Pontina15 la coltivazione del carciofo viene effettuata soprattutto sui terreni alluvionali di medio impasto aventi buone possibilità di scolo. La variante dominante di carciofo è il tipo Romanesco, ma è anche presente in modo rilevante il tipo Castellammare. Da qualche anno si sta riaffermando, seppur innestato per via naturale, l’antico carciofo setino, meno precoce dei due precedenti, ma più saporito e dalla forma meno schiacciata.

Durante il lungo periodo della raccolta dei carciofi ciascun contadino abbandonava la casa posta nel centro storico e si trasferiva con la moglie a vivere in una rudimentale capanna posta sul terreno coltivato a carciofi. Il timore che i ladri potessero rubare il prezioso frutto costringeva il contadino e - purtroppo anche la moglie - a vivere per circa due mesi in condizioni veramente disagiate. Del resto i carciofi si raccoglievano e si raccolgono ancora la mattina presto allo spuntare del sole, pertanto era ed è indispensabile essere presenti sul luogo di lavoro. Si raccontano molti aneddoti sulle donne di Sezze, famose per la loro bellezza, per la cura della propria persona e della casa, ma altrettanto note e biasimate per la loro oziosità e da alcuni scrittori definite addirittura infingarde. Ebbene proprio la donna di Sezze, poco o affatto abituata ai lavori dei campi, lasciava la comoda e calda casa del paese, trasferendosi senza battere ciglio a vivere con il marito in una capanna di legno e stramma. Essa andava a raccogliere «le carciofole mee» (i carciofi miei), mentre durante la zappatura invernale «le carciofole» erano del marito! La donna cucinava nella capanna per sé e per il marito. La raccolta, avveniva - come si è detto - di primo mattino, quando tutte le rigogliose piante sono impregnate di rugiada e spesso di acqua per la precedente pioggia. I contadini e le rispettive mogli nel raccogliere i capolini si facevano e tuttora si fanno, nell’attraversare la piantagione di carciofi, un vero bagno, come se si camminasse in mezzo all’acqua. Ora ci sono gli indumenti idonei a proteggersi, ma purtroppo fino a qualche decennio fa, ci si bagnava e molto. La donna aiutava il marito nella raccolta dei capolini portando sulla testa un basso ed ampio canestro di vimini nel quale il coniuge depositava i carciofi appena tagliati dalla pianta. Al mercato però la donna dimenticava la stanchezza e il bagnato, quando incassava subito in contanti i soldi del prodotto venduto. Moglie e marito vivevano per circa due mesi in isolamento, mangiando quasi quotidianamente carciofi (i capolini non commerciabili) in tutte le salse ed in tutti i modi. Non era frequente il caso che al termine della raccolta dei carciofi la moglie avesse la pancia più grande e per un duplice motivo: il fegato decisamente ingrossato e l’altro, più naturale, spiegabile con la mancanza di luce elettrica e con la sera che scendeva troppo presto…

Oggi i campi di carciofi non sono più sorvegliati con una permanenza stabile, anche se i furti di capolini sono frequenti, soprattutto quando essi hanno un costo interessante.  

 

 

(10) Il bovaro era il proprietario dei due buoi che lavorava il terreno degli altri dietro pagamento.

Il bifolco era invece l’aratore a giornata, che però non possedeva i buoi.

(11) Roberto Almagià, Intorno ad alcune caratteristiche geografiche della regione pontina, in «L’Universo», 1959.

(12) Estremamente interessante è il capitolo che Ercole Metalli nella sua famosa opera Usi e costumi della Campagna Romana dedica alle bufale. Si riporta il brano relativo alla mungitura: «Le bufole secondo Paolo Diacono furono portate in Italia la prima volta nel 595 d. C. e nel 1816 nel nostro Agro (Agro Romano) ce n'erano ancora in numero di 5.000, La bufola vive nei luoghi paludosi; nell'Agro Romano il suo allevamento si pratica nelle Paludi Pontine e a Maccarese, il quale è appunto celebre per la bontà dei suoi latticini fatti col latte delle bufole. Nonostante il suo aspetto goffo e selvaggio la bufola è abbastanza intelligente: se ha trovato in un posto pastura di suo gradimento supera qualunque ostacolo per tornarvi; rompe le staccionate o le salta, passa a guado corsi d'acqua, e tanto fa finché ottiene il suo intento. La bufola è anche molto testarda; soffre tanto per lo eccessivo caldo quanto per l'eccessivo freddo, questo però le riesce più nocivo e talora la uccide. Il modo di mungere le bufole è diverso da quello usato per le vacche, ma non meno originale. Si dividono le bufole dai bufolini e si fanno entrare in due rimessini diversi. In mezzo stanno i bufolari con i secchi. Le bufole vengono impastoiate, affinchè non si muovano; vi sono inoltre «i paraventi» incaricati di pararle col bastone e se la bestia si mostra un po' irrequieta le bastonate piovono sulla sua groppa come gragnuola. E' una cosa un po' barbara, ma necessaria, almeno così dicono i bufolari. Per mungere la bufola il buttero la chiama a nome. Il bufolino che ha già imparato a conoscere il nome della madre emette un « morghetto » (un gemito) e si presenta al cancello del rimessino delle bufole. Il buttero gli apre e il bufolino corre dalla madre e si mette a poppare. Appena però la bufola ha incominciato a dare il latte il bufolino è cacciato con una bastonata sul muso e il bufolaro seguita a mungere la bufola. Le bufole munte sono poi condotte in un altro rimessino, ove vengono pure spinti i bufolini tolti alle poppe materne; cosicché appena una bufola entra in quel recinto tutti i bufolini, rimasti insaziati, le si fanno addosso per suggerle quel po' di latte che le resta. La bufola cosi sballottata distribuisce calci e cornate ma quelli non la lasciano finché ha una stilla di latte. Finita la munta si separano di nuovo le bufole dai bufolini e si mandano divisi al pascolo. Col latte delle bufole «il coratino» manipola vari prodotti, tra cui le provature, le marzoline, le cosiddette uova di bufola, tutti latticini da tavola assai pregiati».

(13) Mario Marazzi, Storia del bufalo laziale, in «Lazio Ieri e Oggi», n. 4, 1973, pp. 80-82. Luigi Zaccheo, Amaseno, Ricerca storica, urbanistica, geomorfologia, Frosinone, 1979, pp. 237-242.

(14) Il pur attento Filippo Lombardini nel suo libro Storia di Sezze del 1876 non accenna minimamente alla coltivazione dei carciofi. Dopo aver elogiato e documentato la feracità del campo setino afferma: «Abbiamo a lamentare una grande iattura. In tanta dovizia di territorio concesso quasi intero all’agricoltura, con una popolazione composta per quasi due terzi da agricoltori, l’arte agraria non ha progredito con i tempi, è rimasta ancora bambina. Si coltiva ancora come insegna la tradizione, fatta qualche eccezione, gli attrezzi, le macchine, i nuovi sistemi sono qui ancora ignorati! E’ una cruda verità, ma la storia non è poesia».