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La Palude

Léstre capanne macchiaroli

 

Luigi Zaccheo

 

Le Paludi Pontine all’inizio del XX secolo erano per antonomasia la zona della malaria, la terra della morte, il paradiso degli uccelli, il luogo della poesia e della natura primitiva, il regno dei bufali a seconda degli interessi delle persone che le visitavano. In ogni caso era forse l’unico tratto costiero della penisola italiana, circa 60 km, nel quale per molti secoli la presenza umana era stata scarsa se non inesistente. Nelle Paludi Pontine vivevano poche migliaia di persone, sparse in piccoli gruppi, che praticavano l’allevamento del bestiame soprattutto ovini, bovini e suini. Durante i caldi mesi dell’estate gli abitanti della palude diminuivano in modo drastico, lasciando le loro abitazioni e ritornando ai paesi di origine. Con l’arrivo dell’autunno rientravano nuovamente in palude: un vero e proprio seminomadismo, 9-10 mesi in palude e 2-3 mesi in montagna.

La bonifica idraulica e la successiva bonifica agricola, messe in essere dal governo fascista, in appena un decennio portarono alla totale trasformazione delle Paludi Pontine, cancellando secoli di usanze, di abitudini, di utilizzo del territorio, espellendo i pochi abitanti indigeni e favorendo l’immigrazione di popolazioni provenienti per lo più dall’Italia settentrionale (Romagnoli, Emiliani, Veneti, Friulani, ecc).

Il governo fascista impegnò tutte le sue migliori energie per la buona riuscita della bonificazione delle terre pontine, utilizzando i più bravi ingegneri idraulici, i più capaci agronomi, i medici, gli intellettuali più famosi, gli archeologi ed anche gli antropologi. Così il giovane, ma già affermato, antropologo Mario De Mandato nel 1933 pubblicò il libro La primitività nell’abitare umano, nel quale un lungo capitolo è dedicato proprio all’Agro Pontino. Nelle zone più alte delle paludi e su appositi spiazzi disboscati, conosciuti con il nome di léstre1, vivevano in semplici capanne pastori, legnaioli, carbonai, allevatori di bestiame, i quali potevano utilizzare per una elementare agricoltura anche piccole aree. Purtroppo tutta o quasi tutta la popolazione che viveva per gran parte dell’anno nelle léstre era malarica. Posso portare la diretta testimonianza di mio padre Felice, nato a Sezze nel 1901, e per lavoro costretto a risiedere per l’intero anno nelle Paludi Pontine, in particolare nella zona chiamata «Mezzaluna». Mio padre fu colpito dalla malaria una prima volta nel 1920 e purtroppo una seconda volta nell’estate del 1944, dopo che i terreni già bonificati erano stati nuovamente  allagati dalle truppe tedesche in ritirata. Dai suoi racconti mi è rimasto impresso il fatto che ancora bambino, prima di dormire, vivendo in palude, suo padre gli cospargeva il delicato volto e le mani con una poltiglia di aglio e lo costringeva a fumare il forte sigaro toscano, il tutto per tenere a bada le zanzare.

Coloro che dormivano occasionalmente in palude nel periodo estivo non disponevano di capanne, ma utilizzavano la lógge, tipica palafitta delle Paludi Pontine, che aveva la duplice funzione di controllo del terreno coltivato circostante e di riposare a circa tre metri di altezza, evitando l’umidità del terreno e soprattutto la gran massa delle zanzare, che sono solite stazionare a circa un metro di altezza.2

Vedendo le numerose fotografie del Fondo Bortolotti del Consorzio di Bonifica dell’Agro Pontino si resta sorpresi nel constatare che nell’Italia degli anni Trenta del secolo appena passato, migliaia di persone vivevano in capanne di paglia sparse in mezzo alla campagna, non dissimili da quelle usate dalle popolazioni arretrate e primitive dell’Africa nera. I numerosi giornalisti, scrittori, intellettuali che dalle città del Nord d’Italia venivano a visitare l’Agro Pontino erano soliti emettere «grida di dolore» di fronte a donne, uomini e bambini che vivevano cenciosi, sporchi e malarici in queste primitive capanne. Lo scrittore Guelfo Civinini rimase profondamente colpito dalle misere condizioni di vita dei lestraioli e da buon intellettuale – per giunta totalmente ignorante della storia, degli usi e costumi delle popolazioni locali – emise sentenze, dette giudizi e consigli, si scandalizzò dell’ignoranza delle persone che incontrava.

Frequentavo il primo liceo classico a Latina: un giorno il professore lesse un brano di Guelfo Civinini nel quale veniva descritta con toni ad effetto la miserabile vita degli abitanti delle léstre, e il rifiuto di una donna di Sezze, palesemente malarica insieme ai suoi bambini, di prendere il chinino che l ’ infermiere incaricato dal governo distribuiva agli abitanti della palude. Anzi l’infermiere – sapendo che la donna era di Sezze – nemmeno le dette il chinino3, perché era certo che l’avrebbe preso per timore di qualche ritorsione  da parte delle autorità, ma che subito l’avrebbe sputato per terra. L’intellettuale Civinini rimase disgustato dal comportamento della donna e scrisse una serie di «alte considerazioni» sull’ignoranza, sull’arretratezza, sull’inciviltà dei sezzesi. Ricordo che fui sommerso dalle risate e dal sarcasmo dei miei compagni di classe, fui considerato poco più che un beduino. Rientrato a casa, chiesi a mio padre il perché dell’atteggiamento di rifiuto della donna. La sua risposta di uomo nato e vissuto in palude fu molto semplice: poiché lavorando in palude si prendeva il chinino per tutto l’anno e per tutta la vita, i medici locali avevano consigliato ogni tanto di interromperne la cura. Lui stesso per alcuni mesi dell’anno si asteneva dall’assunzione del chinino, anche se, per non avere noie con le autorità, lo ritirava regolarmente presso l’ambulatorio medico ogni quindici giorni. (Voglio ricordare che durante la bonifica idraulica mio padre unitamente al fratello Antonio ha lavorato stabilmente in zona La Sega, tornando al paese solamente il sabato sera per prendere i rifornimenti alimentari e per il lavaggio della biancheria).

La vita degli abitanti dell’Agro Pontino era certamente dura e miserevole, ma ritengo che lo fosse altrettanto anche in numerose regioni d’Italia: dal Veneto alla Sardegna, dalla Puglia alla Campania, fino alla Maremma Toscana. Purtroppo la condizione della popolazione rurale italiana era ancora primitiva e con gravi problemi alimentari, sanitari e sociali.

Nel 1938 la bonifica della pianura pontina è ormai compiuta, le nuove città sono state fondate, la città di Littoria è capoluogo di provincia affermato. Ho rinvenuto presso l’Archivio comunale di Sezze una interessante deliberazione, la n. 89 del 1938, che prevede lo stanziamento di fondi per tagliare molto frascame con cui occultare alla vista del potente alleato Adolfo Hitler le circa 700 capanne poste lungo la visuale del tratto di ferrovia Roma-Napoli, che attraversa il territorio di Sezze. Sarebbe stato sconveniente mostrare al superbo alleato che il grande impero fascista in realtà era poca cosa. Altro aspetto rilevante della deliberazione è l’accenno alla forte disoccupazione presente tra la popolazione locale4. Le capanne nel territorio lepino saranno abitate stabilmente o stagionalmente ancora per molti anni, fino a scomparire del tutto all’inizio degli anni Sessanta del secolo appena trascorso, anche se nel 1976 in contrada Foresta a Sezze una capanna era ancora abitata stabilmente.   

 

 

Le capanne

 

La Palude Pontina era frequentata ed abitata in gran parte dai pastori che provenivano dai vicini centri collinari dei Lepini: Sezzesi, Bassianesi (concentrati – questi – a San Donato), Sermonetani, Normesi, Privernati, Maenzani, Roccheggiani, Terracinesi e Sanfeliciani (questi ultimi soprattutto nella Macchia Caserta o Selva Marittima5, e dai pastori che provenivano dalla Ciociaria Frusinate, antica Campagna e in particolare da Filettino, Trevi nel Lazio, Veroli, Carpineto, Segni, Guarcino, Gorga, Alatri, Boville Ernica, già Bauco. Tali pastori nell’insediarsi nelle zone di pianura disboscate e non invase dall’acqua, erano soliti costruire le capanne per viverci utilizzando la tecnica di costruzione che avevano appreso nei loro luoghi di origine. Pertanto non deve stupire se la tipologia delle capanne esistenti nella palude era diversa da léstra a léstra, ma anche nello stesso luogo, se ad abitarci erano macchiaroli provenienti da paesi diversi. I pastori provenienti dalle zone più fredde della Ciociaria Frusinate erano soliti costruire capanne terminanti a punta o a cono, piuttosto alte e piccole all’interno, mentre i pastori provenienti dai paesi collinari, dove il clima è più temperato e caldo, per tradizione costruivano capanne spaziose rettangolari a tronco di cono. Mi raccontava un vecchio pastore di Sezze vissuto per molti anni in palude che già da una lunga distanza, vedendo il profilo delle capanne, sapeva individuare da chi erano abitate. Se la capanna era a punta, sicuramente era dei baucani6, quindi era inutile andare a chiedere «una bevuta d’acqua», perché l’avrebbero negata. Le capanne erano sia circolari che rettangolari e a volte ellittiche. E’ opportuno ricordare che in montagna è assolutamente necessario costruire capanne circolari, a punta e con le pareti molto spioventi, per evitare che il forte vento le danneggi o - peggio - se le porti via. Spesso la capanna veniva rinforzata esternamente in almeno t re punti mediante lunghi e robusti tralci di vitalba e di rovo, che tenevano s t retto l’intero cono in basso, al centro e vicino al vertice. Nella bassa collina e in pianura le capanne erano costruite a sezione rettangolare, con le falde poco spioventi e piuttosto spaziose all’interno, in quanto le condizioni climatiche sono più miti, non nevica e non ci sono forti folate di vento.

Le capanne a forma rettangolare ospitavano soprattutto il bestiame (essendo più spaziose) ma erano utilizzate a volte come fienile e naturalmente anche dall’uomo. Si può concludere che la forma delle capanne in palude era il risultato della tradizione delle popolazioni che le costruivano. Inoltre spesso i visitatori occasionali della palude non distinguevano le differenze considerevoli tra la capanna, lo scafurno, lo shanty (scintì) e la baracca di legno.

Prima di procedere alla costruzione della capanna era necessario individuare un’area pianeggiante, asciutta e, se possibile, riparata dai forti venti. Una volta individuata l’area (ovvero i sédio) si faceva sul terreno, dopo averlo ripulito dalle erbacce e dalle radici degli alberi, un tracciato circolare avente – in media – il diametro di circa tre metri e mezzo o più grande. Seguendo la circonferenza, a distanza di un metro l’uno dall’altro, si conficcavano saldamente nel terreno robusti pali, del diametro di almeno 15 cm., che si alzavano per circa un metro e venti centimetri, tutti alla stessa altezza. Successivamente tali pali venivano collegati tra loro mediante pali più sottili, disposti orizzontalmente. Si procedeva quindi, utilizzando pali di legno di castagno del diametro di 10 cm. e lunghi almeno quattro metri (i cosiddetti ricorrenti), a preparare l’armatura verticale del tetto della capanna. Successivamente su questi pali si inserivano, ma orizzontalmente, lunghe e sottili pertiche sempre di castagno (i cosiddetti filarini o riconserne) ancora verdi, per ottenere una buona flessibilità nel seguire l’andamento circolare dell’armatura della capanna. Il noto pittore Duilio Cambellotti nell’illustrare il libro di Ercole Metalli Usi e costumi della Campagna Romana ci ha lasciato alcuni disegni che rappresentano con chiarezza l’armatura in legno delle capanne pontine.

Una volta terminata l’armatura, si procedeva a riempire gli spazi vuoti tra gli elementi portanti della capanna. Le pareti basse, quelle alte circa un metro e dieci dal suolo, venivano realizzate con steli del mais o con mazzetti di cannucce palustri: questi si pressavano tra due pertiche che correvano tra loro orizzontalmente, in modo da formare una spessa pare t e , impermeabile all’acqua e al vento.

Le falde della capanna erano ricoperte utilizzando corposi mazzetti di stramma (Ampelodesma tenax), chiamati nel gergo locale oranghe, che, disposti gli uni sugli altri in modo compatto, facevano sì che l’acqua piovana, anche se forte, scivolasse velocemente sulla stramma e non penetrasse all’interno della capanna (posso assicurare che anche piogge molto violente non recavano danni a tale copertura). La parte più delicata della copertura della capanna era quella alta, dove confluivano tutti i pali dell’armatura (i culimareccio dal latino columen), in quanto occorreva una particolare abilità nel disporre con tecnica ed esperienza le oranghe.

La porta per accedere alla capanna era larga circa un metro e spesso non era alta, per contenere l’eccessivo afflusso di aria fredda dall’esterno. Per chiudere la porta si usava una piccola stanga, il chiavistello (i calascenno) azionato tirando uno spago dall’esterno e a mano all’interno. Quasi sempre nella parte bassa della porta si trovava una piccola apertura per consentire l’entrata e l’uscita del gatto: la gattaiola (i bucio la iattarola). Spesso sulla porta era inchiodato un vecchio ferro di cavallo, come portafortuna.

Il pavimento veniva sistemato in modo originale, mischiando cenere e terra, oppure la pula del grano (la cama) e la terra. Il tutto veniva bagnato con l’acqua e battuto (pestato) con i piedi, calzando pesanti scarponi. Una volta che l’impasto si era asciugato, si formava un lastrico che sembrava costituito di cemento, non fangoso e quindi facile da pulire con la scopa.

All’interno della capanna, sul lato esposto a mezzogiorno, si costruiva sempre con il legname il letto (la roazzola), su cui veniva posto un corposo materasso realizzato con un ampio sacco riempito dalle foglie sottili della spiga di granturco. Nel lato nord della capanna si ponevano l’orcio di terracotta (l’arciola) e, addossata alla parete, la piccola piattaia (arumaro)7. Tra una parete e l’altra correvano delle lunghe canne o pertiche, usate per attaccare i panni.

Al centro della capanna era posto il focolare, delimitato da alcune pietre. Dal tetto partivano perpendicolari al focolare due aste dentate (dette catena) che reggevano un paiuolo. Spostandolo sui denti della catena, si avvicinava o si allontanava il paiuolo dalla fiamma del focolare.

All’interno della capanna le suppellettili erano scarse e molto spartane. Quasi sempre si disponeva di una madia di legno (arca o arcone) nella quale si ammassava il pane e poi ci si conservavano anche per dieci giorni le pagnotte. Le famiglie più fortunate disponevano anche di una cassapanca nella quale conservare la biancheria. Non mancavano mai il pestasale, quasi sempre di pietra, i cucchiai di latta, le forchette (queste spesso però erano sostituite con quelle di canna), la copella (botticella di legno che conteneva circa cinque litri, usata sia per l’acqua che per il vino), l’orcio di terracotta (arcióla), per conservare l’acqua, la calandrella o muttiglio (una piccola brocca di terracotta con beccuccio), un coltellaccio, alcuni mestoli ricavati dalle zucche essiccate (i cóccio) e all’occorrenza trasformati anche in imbuti o grossi bicchieri. Dalla zucca (i cóccio) si potevano ricavare numerosi utensili, facilmente rinnovabili. Non mancava mai la staratora, una piccola lama di ferro per togliere il fango dagli scarponi prima di entrare nella capanna.

Nello spazio antistante la capanna, all’aperto, era piantato saldamente per terra un robusto palo con numerosi spuntoni, ai quali si appendevano i vari secchi e le suppellettili in generale (i puéglio), necessari ai lavori domestici e per la preparazione del formaggio.

A volte – sempre nello spazio antistante – si disponevano in modo stabile delle robuste aste orizzontali su cui si poggiavano i finimenti del cavallo, del mulo, dell’asino e dei buoi (i pignalo) .

Il fumo, provocato dal fuoco costantemente acceso all’interno della capanna, usciva lentamente dal tetto filtrando attraverso le oranghe di stramma senza la necessità di avere un vero e proprio camino. Entrando nelle capanne nelle quali l’uomo viveva stabilmente, si restava affascinati nel vedere il nero del catrame che era diffuso in modo uniforme su tutto l’interno, come se una sapiente mano lo avesse dipinto. Il fumo aveva il pregio di allontanare i numerosi insetti e le zanzare (i sfumeggio), inoltre evitava che le tarme distrugges s ero l’armatura di legno della capanna8. Nella parte alta dell’interno della capanna su un’apposita asta orizzontale venivano attaccati, per essere asciugati, i prosciutti, i guanciali, le lonze e le salsicce. (Posso assicurare che il sapore e il gusto di tali prodotti suini asciugati lentamente con il fuoco all’interno della capanna raggiungevano livelli straordinari).

Nella pianura pontina la copertura delle capanne oltre che con la stramma veniva fatta anche con piccoli fasci di canne palustri sottili, messi gli uni sugli altri seguendo la tecnica e la messa in uso delle oranghe di stramma. Se mancavano sia la stramma che le cannucce si utilizzavano le code di ginestra scopaiola o dei carbonai seguendo la medesima tecnica. Ma il vero capolavoro della copertura delle capanne pontine era dato dall’uso degli steli del grano. Si piantava il grano della specie Roma o Romanella che, oltre che portare spighe robuste, aveva degli steli molto alti, rispetto ad altri tipi di grano. Durante la mietitura si tagliavano appositamente le spighe piuttosto in alto, lasciando intatto il lungo stelo; successivamente con le mani si tiravano dal terreno gli steli con tutte le radici. Si procedeva a farne dei mazzetti che venivano utilizzati per la copertura della capanna. Le radici apparivano esternamente, mentre gli steli erano appoggiati internamente all’armatura. Questo tipo di copertura era chiamato a pelliccione, durava molti anni ed era molto resistente. A volte nelle capanne coperte a pelliccion e, nel soffitto, a circa tre quarti di altezza, veniva realizzata una piccola apertura per consentire in modo più celere l’uscita del fumo. L’aspetto di una capanna ricoperta interamente con radici di grano era molto bello ed uniforme. Peccato che ora non sia più possibile procedere ad una simile copertura, in quanto tale tipo di grano non viene più seminato.

Nei pressi della capanna centrale se ne trovavano quasi sempre altre di servizio, che pertanto erano meno elaborate: lo scafurno, lo scintì, la baracca. Lo scafurno era una capanna piuttosto semplice e rozza, realizzata usando i materiali disponibili nelle vicinanze e senza badare all’aspetto estetico. Esso era usato come riparo per gli animali, come deposito per gli attrezzi agricoli e in alcuni casi come abitazione temporanea dell’uomo, soprattutto nei mesi estivi e non piovosi.

Lo scintì (dall’inglese shanty) era realizzato, a sezione rettangolare, con tavole informi di legno, che ricoprivano in modo spesso disordinato le quattro pareti. Per la copertura del tetto, generalmente ad una falda inclinata, si usavano grosse cortecce di albero (le schiazze) poste le une sulle altre.

Spesso i visitatori delle paludi parlavano di capanna in senso generale, non distinguendo affatto le varie forme. La capanna era la casa vera e propria e quasi sempre si lasciava in eredità ai figli. Non era pertanto una costruzione effimera stagionale, ma il luogo dove trascorrere la vita.

Nelle zone di collina e di montagna, dove è abbondante e facilmente reperibile la pietra calcarea (ma anche vulcanica in alcune zone particolari), la base della capanna era realizzata con robusti muri a secco, utilizzando gli scapoli di calcare che si trovavano in superficie sul terreno. Tali muri avevano generalmente uno spessore di circa 80-90 cm. e un’altezza di un metro abbondante. E’ evidente che le capanne realizzate in montagna avevano una maggiore solidità e all’interno si presentavano più pulite e soprattutto più fresche. Gli scapoli di pietra calcarea che si trovano sparsi sul terreno, anche se di corpose dimensioni, non sono mai eccessivamente pesanti, in quanto cotti e pertanto alleggeriti dagli agenti atmosferici (neve, acqua, gelate, forti escursioni termiche, caldo, sole, ecc.) pertanto erano messi in opera con relativa facilità.

Oltre che costruire un’unica capanna per tutte le necessità della vita, erano spesso realizzate più capanne finalizzate ciascuna ad un determinato uso. Sicuramente più curata e più pulita all’interno era la capanna gli fóco, ovvero la capanna adibita a cucina. Al centro di essa era posto il focolare circolare, ma non eccessivamente grande, delimitato da robuste pietre di calcare, per evitare il disperdersi della cenere e della brace. All’interno erano sempre presenti la piccola madia per custodire il pane, la piattaia fissa (gli arumaro) e la conca per conservare l’acqua con il relativo mestolo (concone e soréglio).

La capanna gli létto veniva utilizzata soltanto per dormire; era molto curata internamente ed esteticamente era bella ed accogliente. L’interno era stabilmente rivestito con larghe strisce di canne sapientemente intrecciate in modo da formare una parete uniforme, omogenea da terra alla cima. Tale complesso rivestimento era riservato quasi esclusivamente per le capanne destinate ai giovani sposi. All’interno, con al centro sempre il focolare, si trovavano uno o più letti (roazzole), realizzati con assi di legno fissati per terra e tavole di castagno. Sulle tavole veniva posto il pagliericcio. Erano presenti alcuni sgabelli rudimentali di legno (le bangozze) e un appoggio dove attaccare durante la notte i pochi abiti che si indossavano. Spesso i letti, per economizzare lo spazio, erano realizzati a castello. Per le esigenze fisiologiche si usciva dalla capanna e nei casi più fortunati si usava il classico pitale.

Interessante è i capannéglio o capanna mutatóra. Si tratta di una minuscola capanna, alta circa due metri, a forma di cono, con un diametro alla base di circa 140 cm. Tale capanna era realizzata con lo stesso materiale delle altre: piccoli assi di castagno per lo scheletro, copertura con stramma o con code di ginestra. A volte la copertura era realizzata con piccoli fasci di saggina o con larghe foglie di felci. Quest’ultimo tipo di copertura aveva l’inconveniente della sua breve durata nel tempo. I capannéglio era destinato ad essere sollevato dal suo sito e di essere spostato. Il suo peso, di appena 50-60 chilogrammi, gli consentiva di essere sorretto, senza essere smontato, da due persone oppure da un asino, legato sul basto. I pastori infatti, seguendo sempre il gregge, dovevano spostarsi per periodi più o meno lunghi nei vari pascoli. Nel pascolare le greggi essi salivano gradualmente in quota, fino alla parte più alta della montagna, portando con loro i capannéglio. Questo, oltre che dai pastori, a volte veniva usato dai carrettieri e dai bovari con le loro famiglie: infatti lo si poneva sui carri, trascinati dai buoi, in modo da consentire durante il giorno il riparo dal sole e dalle intemperie, e durante la notte il riposo, protetti dall’umidità e dalla rugiada: una vera e propria roulotte ante litteram.

Nelle grandi tenute agricole della pianura era sempre presente i capannóno: esso, di grandi dimensioni, a volte raggiungeva i 150 mq. di spazio interno utilizzabile. Celebre è rimasto i capannóno di Aiuti, il più grande in assoluto di tutta la pianura Pontina e ricordato per antonomasia. Questa tipologia di capanna era caratterizzata da una pianta rettangolare. Lungo i lati perimetrali si conficcavano nel suolo a distanza regolare robusti pali di castagno: questi erano tutti della stessa altezza nei lati lunghi, progressivamente più alti nei lati brevi per consentire la copertura a due falde spioventi. In considerazione della lunghezza della struttura, la copertura richiedeva il supporto di almeno tre altri pali allineati al centro. L’interno si presentava pertanto composto da due navate, molto alte e spaziose, divise dai pali. La copertura, a due falde, era realizzata sempre con la stramma o con le radici del grano che poggiavano su un’armatura di assi di castagno. Le quattro pareti laterali della struttura erano realizzate con alti steli di granturco (gli stavi); con code di ginestra oppure con la paglia dei lupini. Nel capannone si custodivano il fieno per le bestie, ma anche gli attrezzi agricoli (aratro, erpice, finimenti, zappe, forche, pale, vanghe, ecc.) e a volte anche i generi alimentari (grano, granturco, fagioli, ed altro ancora). Tali generi erano riposti con cura in appositi contenitori, dalle pareti realizzate con canne intrecciate (i cambracano), in modo che essi avessero una buona aerazione e nello stesso tempo fossero difesi dall’attacco dei famelici topi. La piccola camera a canne, spesso di forma cilindrica, veniva chiusa con un coperchio fatto con vimini intrecciati.

La capannózza o capannella era invece una capanna stabile di ridotte dimensioni e alquanto rabberciata, anche se realizzata con gli stessi materiali usati per le altre (legno di castagno, stramma, code di ginestra). Essa veniva costruita negli uliveti e sui terreni che si trovavano distanti dall’abituale abitazione del proprietario. Più che una capanna era un riparo di fortuna durante la giornata lavorativa, in caso di pioggia o di improvvisi temporali.

Spesso tra le varie capanne troviamo anche la capanna le grasce, realizzata secondo gli stessi sistemi costruttivi delle altre capanne, nella quale erano gelosamente custoditi i poche viveri che la famiglia possedeva. Si trattava quasi sempre di grano, granturco, fagioli, lupini, patate, ceci, fave ed altro. I salumi e i formaggi invece erano conservati nella capanna gli fóco. Soltanto il padrone di casa e la moglie potevano accedere alla capanna le grasce, che era sempre ben chiusa e protetta dagli sguardi indiscreti dei vicini.

E’ opportuno ricordare che i pastori e i contadini nel realizzare i vari tipi di capanne avevano l’accortezza di ubicarle a distanza di sicurezza l’una dall’altra, perché in caso di incendio di una capanna, il fuoco non coinvolgesse tutte le altre, distruggendo così in pochi minuti tutte le ricchezze. Spesso i pastori molto poveri conservavano sotto la loro roazzóla (il letto su cui dormivano) il poco grano o granturco che possedevano, oltre alle galline e agli altri preziosi averi.9

Dall’aspetto curioso a vedersi era la capannuccia per le galline a causa delle sue ridottissime dimensioni. Era costruita con lo stesso materiale delle altre capanne (copertura con piccoli travi di legno e stramma). Essa, di forma conica, raggiungeva un’altezza massima di circa 150 cm. ed aveva un diametro interno di un metro. La copertura con stramma era rinforzata da robusti vimini. Alla base presentava una minuscola apertura tale da consentire il passaggio di una gallina alla volta. Spesso questa capannuccia era circondata e protetta da un fascio di pungenti rovi. Di giorno le galline stazionavano nell’aia, ma la notte venivano rinchiuse in questa piccola costruzione affinché fossero al sicuro dall’attacco delle volpi e delle faine. Del resto il pollame era molto importante, anzi vitale per la vita dei poveri lestraioli, tanto da essere protetto con ogni mezzo. Le famiglie che possedevano numerose galline avevano la necessità di costruire due o tre capannucce. Tale tipo di costruzione era presente anche sui Monti Lepini, soltanto che la sua base era costituita da un robusto muro a secco di pietra. La piccola porta, durante la notte, veniva chiusa da una pesante tavola.

Quasi sempre i maiali allevati dai lestraioli vivevano in libertà intorno alla zona abitata. Spesso però, per motivi di sicurezza, il maiale veniva fatto crescere stando rinchiuso nel mandriglio o rólla. Questa è una costruzione a sezione quadrata (2 metri x 2), avente la forma di una gabbia, realizzata con pali di legno conficcati per terra. Il pavimento di legno, su cui stazionava il maiale, era posto a circa 50 cm. di altezza dal suolo sottostante, per consentire attraverso apposite fessure tra le assi la caduta a terra dello sterco dell’animale. I maiali, pur rinchiusi in uno spazio ristretto , vivevano così in un luogo asciutto e pulito. Negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso si cercò di allevare i maiali tenendoli costantemente sul pavimento di cemento, quasi tutti si ammalavano di forti infezioni ai piedi. Successivamente con l’utilizzo dei mattoni refrattari questo grave problema è stato risolto.

Quando i pastori dalla montagna arrivavano in pianura per restarci diversi mesi, portavano con loro numerosi gatti, piuttosto grossi e quasi sempre affamati. I gatti, unitamente alle galline, ai tacchini, ai maiali, provvedevano a bonificare il terreno circostante la capanna dalla presenza di animali indesiderati: serpentelli, grosse bisce, lucertole, ramarri, topi, cavallette, ecc. I cani invece servivano per fare la guardia agli animali domestici, in considerazione del fatto che i furti erano piuttosto frequenti. Del resto la capanna con i suoi beni materiali (poveri ma indispensabili alla vita) e con gli animali non veniva mai lasciata incustodita. La donna con numerosa prole al seguito non si allontanava mai da essa.

Nelle léstre accanto alle capanne abitate veniva quasi sempre costruito un rudimentale forno in muratura, di modeste dimensioni, capaci di contenere un massimo di quindici pagnotte di pane. Il prof. Mario De Mandato nel suo libro accenna alla presenza di piccoli forni nelle léstre.

I macchiaroli basavano la loro alimentazione sul pane di farina di grano e sulle pizze fatte con la farina rossa di granoturco. Le pagnotte, una volta cotte, venivano riposte nella madia di legno (arca, arcóno) e consumate nell’arco di dieci giorni circa, a seconda del numero dei componenti della famiglia. I legumi, (in particolare fagioli, ceci, cicerchie, fave) erano mangiati quasi quotidianamente e cucinati in molti modi diversi. Quasi sempre al tramonto gli uomini si recavano nei vicini stagni e pescavano in poco tempo il quantitativo di rane necessario per la cena o per il pranzo del giorno dopo, non meno di 30-40 rane. Queste, una volta spellate e pulite delle parti non commestibili, venivano lasciate in una pentola di acqua pulita per il dissanguamento. Spesso il pasto serale era costituito da una zuppa composta da tante fettine sottili di pane raffermo su cui si versava un brodo di rane con alcuni pomodori, magari con dentro una o due uova. Quando il tutto si era inzuppato, si mangiava con avidità.

La dieta dei macchiaroli era incrementata anche dalle lumache, che si consumavano in grande quantità, cotte soprattutto con il sugo di pomodoro. Spesso si usavano le lumache cotte per condire la polenta.

Una vera leccornia erano le anguille, che però solo i più abili erano in grado di pescare e non in tutti i periodi dell’anno. Paradossalmente, pur essendo la palude il paradiso degli uccelli, solo i cacciatori erano in grado di procurarsi abbondante selvaggina, in quanto i lestraioli quasi mai disponevano di un fucile per la caccia. A catturare i piccoli volatili con le trappole erano poco interessati, perché, in fondo, a loro il cibo non difettava. Occorre ricordare che presso la capanna si allevavano galline, tacchini, papere, maiali e le greggi di pecore erano spesso presenti fornendo latte e formaggi. A volte capitava che un bufalo o una mucca morisse per incidente: allora si aveva a disposizione molta carne da consumare. Il cibo per gli abitanti delle léstre non era uno dei problemi principali.

La pesca delle rane, per chi ne era capace, era semplice e veloce, in quanto in pochi minuti se ne potevano pescare molte. Il ranocchiaro dilettante e occasionale reggeva con la mano destra una sottile asta, lunga al massimo 2 metri, alla cui estremità era legato uno spago lungo quanto l’asta. All’altra estremità dello spago si legava una lumaca sgusciata. Il pescatore con tale lenza batteva dolcemente sull’acqua per attirare l’attenzione delle rane. Una di queste, affamata, ingoiava la lumaca legata con lo spago. Il pescatore con tempismo ritirava la lenza e con la mano sinistra prendeva la rana ancora attaccata alla lumaca. Comprimeva lo stomaco della rana per evitare che la lumaca venisse mangiata e poter poi continuare a pescare. Un ranocchiaro bravo nel pescare cento e più rane al massimo perdeva due lumache. Poiché le rane erano voraci e soprattutto se ne trovavano in quantità straordinaria, la loro pesca non era un problema, anche i bambini erano in grado di rimediare la cena.

Più complessa e difficile era la pesca delle anguille (la mazzacchera) riservata quasi sempre ai soli specialisti. Il pescatore di anguille, prima di recarsi sul luogo della pesca, la sera precedente si preoccupava di raccogliere un bel fascio di lombrichi, meglio se lunghi e grossi. Con ago e filo trapassava il corpo del lombrico e questa operazione veniva ripetuta per almeno dieci lombrichi, che quindi venivano tenuti uniti in un solo fascio. Questo era legato ad uno spago lungo circa 2 metri, unito a sua volta ad una corta asta, che il pescatore teneva con la mano destra. Questi, stando seduto in riva al corso d’acqua, alla sua sinistra disponeva per terra un grosso ombrello da pastore aperto e capovolto. Quando l’anguilla mordeva l’esca, per un attimo con i denti restava impigliata al filo che correva nel corpo del lombrico. Il pescatore, con molta abilità e grande velocità, spostava la rudimentale lenza verso l’ ombrello aperto e l’anguilla ci cadeva dentro non riuscendo più a scappare.

Posso affermare che da ragazzo sono riuscito a pescare alcuni ranocchi, ma non sono mai stato capace di prendere un’anguilla, perché è molto difficile e occorre una grande abilità, usando le tecniche di cui si è parlato.

Dormire e vivere nella capanna non era affatto quel dramma che i vari intellettuali hanno scritto sui libri e sui giornali. La popolazione italiana che risiedeva in campagna almeno fino al 1955 abitava stabilmente nelle capanne, fossero esse quelle dell’Agro Pontino, fossero i casoni della laguna Veneta, i pagliai della Campania, della Sardegna, della Puglia e della Maremma Toscana. E’ evidente che nelle regioni del nord Italia, nell’Abruzzo e nel Molise, a causa delle rigide temperature non era possibile vivere durante l’inverno nelle capanne di paglia, ma occorrevano ripari molto più consistenti e in pietra.

Da bambino, quando mio padre mi conduceva a vivere in campagna per «sorvegliare il frutteto e il vigneto», ci restavo per circa due mesi e dormivo – come tutti – nella capanna che era stata costruita nel nostro fondo. La vita allora non appariva poi così dura, anche perché tutti si viveva allo stesso modo. La capanna era un luogo confortevole rispetto alla calura che si respirava in aperta campagna. L’acqua nell’orcio si conservava fresca e per esigenze igieniche primarie si usava senza problemi il campo aperto (il canneto, il vigneto, l’uliveto, le fratte). Per detergere il corpo si andava alle vicine sorgenti di acqua sulfurea, di cui era ricca la zona pontina. Vivere all’aria aperta non era poi così male.

 

Lo scrittore Arnaldo Cervesato, nella sua opera Latina tellus. La Campagna Romana, Roma, Casa Editrice C. Voghera, 1922 ci descrive in modo sommario come erano le capanne, limitandosi ad esprimere sdegno per le condizioni di vita veramente miserabili dei guitti. Si riportano alcuni brani particolarmente interessanti:

«Le capanne che generalmente abitano «i guitti» sono forse le primitive fra quante sussistano sulla superficie della terra. Infinitamente più rozze e inospitali delle capanne degli abitanti del Congo, si possono appena paragonare a quelle dell’ultima classe degli Abissini che ne hanno appunto due varietà – di forma conica e di forma allungata – che coesistono nelle praterie dell’Agro. Sono le capanne dell’età della pietra, rimaste immutate attraverso gli evi e i millenni… Queste capanne sono fatte di paglia, di canne di granturco,  di strame e piante secche. L’ingresso è una buca attraverso la quale non sipuò entrare che curvi. Pavimento, nell’interno, la terra nuda con in mezzo il focolare, senza via d’uscita per il fumo… Le capanne coniche contengono anche cinque o sei famiglie, che in quei pochi metri quadrati entro la parete di foglia e canne, dormono in promiscuità sulle «rapazzóle» che sono giacigli di vimini e fieno con un fascio di paglia per cuscino. Nel buco scavato in terra nel mezzo della capanna cuoce «la pizza» di granturco che con «l’acqua cotta» è l’alimento abituale dei guitti, i quali vi tuffano a fette il duro pane nero

 

Il geografo Giuseppe Morandini nella sua importante opera I Monti Lepini. Studio antropogeografico in «Memorie di Geografia Antropica», Roma, 1947, ci dà una attenta descrizione delle capanne costruite dai pastori sui Monti Lepini:

«Il materiale da costruzione impiegato è la pietra per la base e la paglia sostenuta da un’armatura di rami per la copertura. Ne risulta un edificio assai diverso come struttura e funzione: la pianta è normalmente circolare e talora sub-ellittica con dimensioni di circa 4 metri di diametro (per le circolari) e 6 x 4 metri (assi dell’ellisse). Il muro perimetrale a secco di pietre non squadrate è di spessore notevolissimo (circa un metro o più talora) e poco elevato (poco più di un metro). Esso è interrotto da una stretta apertura che, chiusa al di sopra dal tetto che appoggia sul muro, costituisce l’entrata non munita di porta. Il pavimento è sempre in terra battuta. Il termine usato per indicarle è quello di «capanne», talora sostituito da quello di «pagliare», assai adatto, perché qualche volta ai muri perimetrali si sostituisce una parete anch’essa di paglia, eventualmente intonacata con fango. In questo caso non è infrequente un cambiamento della pianta che da circolare o ellittica diventa rettangolare… La paglia invece abbondante dappertutto perché ovunque sono diffusi i seminativi, viene accumulata in pagliai all’aperto col solito sistema in uso in molte parti d’Italia. Lo «stazzo» è costituito dalla capanna, abitata dal pastore- agricoltore, accanto alla quale vi è il recinto entro a cui si ricoverano gli ovini nel periodo notturno, quasi sempre anch’esso in muro a secco ( oltre un metro alla base) e bassi, quasi come si trattasse di ridotte fortificate. Il recinto può essere staccato, ma di frequente è addossato da un capo alla capanna ed è di forma arcuata sì da recingere un’area attigua alla capanna stessa… L’ associazione tra capanna ellittica e circolare è di regola più frequente nelle zone più alte e allora si ha la forma più solita dello «stazzo» dei Lepini, nella quale la capanna circolare è adibita ad abitazione dei pastori-agricoltori e quella ellittica serve da stalla per gli animali grossi e per i suini e talvolta sostituisce anche il recinto per gli ovini. La maggiore o minore importanza agricola dello stazzo può determinare l’aggiunta di una o di due altre capanne ellittiche, sempre a scopo di ricovero degli animali (bovini, suini), le cui dimensioni variano a seconda degli animali ricoverati».

 

 

 

NOTE

 

(1) Si riporta la definizione che il prof. Mario De Mandato dà della léstra: «La parola lestra sta a designare non la capanna, ma ciascuno degli appezzamenti cintati entro i quali sono installati gli uomini e il bestiame. Col nome di lestra oggi però praticamente è chiamato ogni aggruppamento di capanne, ogni villaggio: e vi sono lestre di una o poche capanne, sperdute nella palude, come altre con più di cento abitanti: la lestra della Cocuzza, la Molella, la lestra del Montanaro». Roberto Almagià, Intorno ad alcune caratteristiche geografiche della regione pontina, in «L’Universo», 1959, a pagina 378 afferma: «La parola lestra viene riportata ad un latino extera come neutro plurale: ciò che si trova all’esterno; in origine credo designasse proprio la radura, come spazio fuori del bosco; poi, nei dialetti laziali e abruzzesi, passò ad indicare anche la capanna.»
(2) Nell’interessante studio di Mario Riccardi Il bacino di Fondi, in «Boll. Soc. Geograf. Ital.», vol. XII, 1959, a pagina 75 troviamo un disegno raffigurante una lógge, che l’autore chiama «riparo estivo su palafitta ». Si riporta la descrizione: «Tuttora si osservano dei curiosi ripari estivi, specie di piccole dimore su palafitte: quattro pali verticali sorreggono, a tre-cinque metri dal suolo, una piattaforma pure di pali, e più in alto una sorta di tetto piatto di frasche e paglia; le pareti mancano completamente. Una scala a pioli dà accesso alla piattaforma. Queste costruzioni sono usate dai contadini come ripari momentanei e per la caccia. A. Bèguinot, che aveva osservato questi ripari durante le sue escursioni botaniche nella piana, ritiene che siano costruiti così allo scopo principale di premunirsi dall’area malsana, che secondo le credenze popolari non arriverebbe a quell’altezza. Poiché tali ricoveri si trovano per lo più in aree che erano o sono tuttora inondate per una parte dell’anno o comunque sono molto umide, ritengo che lo scopo principale di tali costruzioni sia quello di evitare l’eccessiva umidità del suolo.
(3) Fino al 1970 a Sezze era possibile trovare nei negozi dove si vendevano «sali e tabacchi» anche una targa nella quale era scritto «si vende il chinino di stato».
(4) Dalla deliberazione veniamo a sapere che purtroppo nel 1938, terminati i complessi lavori di bonificazione delle terre pontine, era ritornata con tutto il suo dramma una pesante disoccupazione. E pensare che solo qualche anno prima era necessario fare arrivare da altre parti d’Italia numerosi lavoratori per la bonifica, in quanto i soli abitanti del luogo non erano sufficienti.
(5) La Macchia Caserta era uno degli esempi di foresta planiziaria tra i più importanti d’Europa. Per il desiderio di avere terreni coltivabili a grano, tale foresta fu con troppa leggerezza abbattuta, lasciandosi guidare più dalla retorica del tempo che dalla ragione. Riporto una considerazione del famoso sindacocontadino di Sezze Alessandro Di Trapano: «Ho fatto tagliare tre alberi e la forestale mi ha denunciato e ho dovuto affrontare un processo come un criminale. E’ stata tagliata l’intera Macchia Caserta e ci hanno detto che è stata un’opera grandiosa!».
(6) Con il termine baucano non si intendevano soltanto gli abitanti di Bauco, ma ci si riferiva a tutti coloro che provenivano dalla Ciociaria Frusinate. Il termine veniva usato spesso come dispregiativo, ad indicare una persona stupida, zotica, sporca. L’offesa maggiore che si potesse arrecare ad una persona era quella di definirlo «tu si nu baucano!».
(7) Colorito e significativo era il detto «gli arumaro senza piatti è accomme a na femmina senza zizze».
(8) Nel costruire la capanna per il Museo della Civiltà Contadina a Sezze Scalo, la prima raccomandazione che ho avuto da alcuni pastori amici è stata quella di accendere ogni tanto il fuoco all’interno, per evitare che le tarme distruggano in poco tempo l’armatura fatta con le travi di castagno. Le capanne abitate stabilmente dall’uomo riuscivano a stare in piedi anche per cento anni, a condizione che si provvedesse alla necessaria manutenzione.
(9) Ancora si racconta la vicenda del pastore a cui ladri accaniti e scaltri riuscirono a rubare un prosciutto, che teneva gelosamente nascosto proprio sotto la «roazzóla». I ladri, in agguato da molte ore, agirono durante il primo sonno profondo del pastore, praticando una piccola apertura tra le pareti di paglia della capanna e arrivando a prendere l’ambita preda. Il pastore, derubato e soprattutto beffato, fu per lungo tempo oggetto di derisione da parte di tutti gli altri pastori, che affermavano «che ci mancava póco che ci rubavano puro la moglie».